Giacomo Lauri Volpi : "NON BASTA UN DISCO..."
Si è pubblicato, di recente, il Dizionario critico-biografico dei cantanti con discografia operistica, dal titolo "Le grandi voci" : un grosso volume abbastanza appariscente come veste tipografica, diretto e redatto in gran parte da Rodolfo Celletti, per incarico dell'Istituto per la collaborazione culturale. Il Celletti è un critico vocale tra i più sperimentati e provveduti. Ma, sui migliori, ha il vantaggio di aver studiato a fondo la fonazione umana sulla sua propria voce: una voce qualunque, con la quale poté formare una gamma di suoni che gli ha permesso di eseguire alcuni brani d'opera, ispirandosi alle voci più celebrate che, a suo giudizio risultano più tecnicamente educate ad esprimere sentimenti e immagini sonore.
Il Celletti desidera - da uomo di spirito e di acuta intelligenza - che gli si dia, sulla sua ponderosa e poderosa opera, un'opinione assolutamente schietta, in sede critica, "senza obbligo, da parte del critico, di essere dolce di sale", giacché, a somiglianza di Aristotele, preferisce essere "amico più della verità che non dello stesso Platone".
D'accordo. In tempi di discomania, e di collezionisti arrabbiati di cimeli vocali, è facile cadere nell'errore o nell'equivoco. Ora, se il Dizionario pecca di inesattezze, mentre aspira a guidare gli orecchianti e i dilettanti nell'ascolto di dischi di questo o quel cantante, il risultato di tanta fatica diventa assai discutibile; non raggiunge, dico, lo scopo prefisso: quello di illustrare i valori vocali e interpretativi degli artisti lirici più famosi.
Per fortuna, il Celletti non si fida sempre dei suoi orecchi e del suo gusto personale. Con frequenza cita, a conforto della sua tesi, i testi di studiosi dell'arte vocale e le opinioni di coloro che udirono direttamente le voci trapassate alle quali i dischi non rendono giustizia. Tra coloro si è compiaciuto annoverare lo scrivente, il quale nelle "Voci Parallele" esprime giudizi di prima mano, derivati dalla cooperazione scenica con le Voci registrate. Però alcuni fra i suoi collaboratori, pur attingendo alla stessa fonte, non fanno altrettanto, a voler giudicare, ad esempio, quanto ha fatto colui che, pur servendosi, senza citarle, delle "Voci Parallele" nella parte critica, ne trascura poi la parte biografica, commentando la voce di Lily Pons. La quale, sì, ebbe per agente Maria Gay-Zenatello, ma soltanto da Maria Ros ricevette la spinta iniziale per decidersi ad andare a New York. "Io mantengo - ella scrive - sempre un grato ricordo di Maria Ros, che fu per me la chiave che mi aprì la porta del Metropolitan".
La singolarità di quella voce infatti consisteva nella capacità di attaccare il "fa" naturale sopracuto a bocca chiusa, e arrotondare i suoni. Ond'è che la riproduzione discografica dà a intendere che la Pons dominasse una gamma sonora quasi oscura e voluminosa. Il microfono fa di questi regali e non gli si può sempre riconoscere la fama di "alta fedeltà". Ora, se il collaboratore del Celletti fosse stato più scrupoloso, gli amatori e i cultori del canto avrebbero conosciuto un esempio eloquente di una Voce, che, respinta in patria, poté per la sua capacità e il buon gusto, trionfare dalla notte alla mattina persino sulla ribalta di una massima scena.
Nuovo caso d'inesattezza è dato da un altro collaboratore del Dizionario. A proposito di Lucrezia Bori, egli afferma che la soprano spagnola esibiva "voce limpida e flautata". Limpida sì, flautata, no. E tanto meno "dal suo canto scaturivano suoni di miracolosa trasparenza". Questo proprio, no. I discomani con cotali ameni discorsi, non potranno, di certo, farsi un'idea sia pure approssimativa, della voce di Lucrezia Bori. La quale, specie nelle note acute, strideva e sforzava. Flautata, la voce della Galli Curci, alla quale per contro il critico attribuisce "un timbro più vitreo che cristallino". Vitreo, invece, era proprio quello della Bori.
Tutto ciò accade quando ci si arrischia a giudicare una voce soltanto sulla base della così detta documentazione discografica. Ed allora persino la Pareto, voce calma e pallida, viene presentata come aspra: "a volte, gli acuti suonano un po' striduli".
Al contrario, in tutta la gamma, la soprano spagnola eccelleva per levità di emissione, sorretta dal fiato e dall'intenzione. Ricordo la romanza della "Marta", opera che eseguimmo insieme nella Compagnia del Metropolitan. Niente di più vaporoso e leggiadro ho mai udito in una voce umana. Dunque bisogna andare adagio con i giudizi che s'ispirano al meccanismo degli... elettrodomestici, negatori assidui di ogni spiritualità sonora.
Ma andiamo avanti. Il critico, riferendosi al tenore francese Georges Thill, assicura che la maschia voce del parigino, eccellente esecutore della "Carmen" e dei "Pagliacci", "col metodo di colorire la parola richiama un poco quello di Schipa (a volte si coglie anche qualche affinità di inflessione tra i due tenori)". Non so se il nostro critico abbia mai udito G. Thill, in persona, sul palcoscenico. Posso assicurarlo che il francese somiglia a Schipa come, ad es., chi scrive a Tagliavini. Il fatto è che i dischi ingannano assai spesso e imbrogliano le carte assai volentieri. Abbiamo il caso di Mario Lanza, di cui, giustamente, il Dizionario non fa cenno. La voce dell'italo-americano sfida, in disco, quella di Caruso.
Tutto ciò non vuol dire che il Dizionario de "Le grandi voci" sia opera vana. In genere, le voci grasse e voluminose hanno tutto da guadagnare nella registrazione. Le voci dal timbro luminoso vengono spolpate dalla macchina, ridotte a mal partito. Il cantante lo sa. Se appartiene alla prima categoria, va lieto e fiducioso a incidere dischi; se alla seconda, ci va nervoso e diffidente, sapendo che il tecnico del suono gliene farà di tutti i colori. E, allora, addio interpretazione, ispirazione, estasi, stato di grazia.
La documentazione fonografica, a sussidio del giudizio critico, risulta aleatoria, per chi, in anticipo, non conosca la voce registrata. E' valida invece, utile e necessaria quando chi consulta la compilazione discografica, già conosce le note caratteristiche di quella ed è in grado di riconoscerla o no ascoltando l'incisione.
Si dice, ad esempio, che la voce di Battistini avesse colore tenorile. Per forza. Il disco fa sentire trasportati di un tono sopra i brani eseguiti dal sommo baritono sabino. Ma Battistini otteneva dal suo strumento duttilissimo tutti i colori che convenivano all'interpretazione musicale. Come Cialiapin. La macchina "parlante" - come fu chiamata - è un congegno che va usato con discrezione e intelligenza. Soltanto gli esperti e i provveduti possono trarne informazioni giuste. Altrimenti succedono guai. Una sopranino, di cui recentemente la Scala ha fatto giustizia sommaria, osò affermare in una sua sciagurata intervista che gli autentici cantanti "facevano morir dal ridere". La poverina aveva ricevuto... informazioni, non propriamente attendibili, dalla documentazione fonografica...
Quanto alle informazioni biografiche sul mio conto, il Dizionario notifica: "Si vuole che nello scrivere la parte di Calaf Puccini si sia ispirato alla voce di Lauri-Volpi". Orbene, martedì 7 ottobre 1941 sulla "Stampa Sera", di Torino, Giuseppe Adami nella rubrica "Variazioni scaligere" scriveva: "... desiderato e sognato da Puccini vivente come creatore del Principe Calaf, fu Lauri-Volpi". Il librettista della "Turandot" non avrebbe fatto sì perentorie affermazioni, se non avesse voluto smentire i "si vuole" e i "si dice", a favore di altri tenori che furono interpellati dopo che Lauri - Volpi non si era accordato con i dirigenti scaligeri. Ma creò lui la parte al Metropolitan, e al Colon, appunto perché ai direttori di quei teatri era nota la volontà del Maestro di Lucca.
Dunque, l'esattezza storica va rispettata quando si tratta di compilare dizionari critico biografici. Ma qui la colpa non è del Celletti, che non conoscendo l'esistenza dell'articolo dell'Adami ha voluto lasciare in bilico la notizia, temendo che un eventuale rampollo di qualche artista scomparso, potesse dargli la croce addosso. A parte i rilievi, va riconosciuto che, su moltissime voci, il Dizionario fornisce informazioni adeguate. Il Celletti può dirsi orgoglioso della strenua fatica, compiuta con rovente passione e lucido intelletto.
(da: G. Lauri Volpi - "Incontri e scontri", 1971)
Il Celletti desidera - da uomo di spirito e di acuta intelligenza - che gli si dia, sulla sua ponderosa e poderosa opera, un'opinione assolutamente schietta, in sede critica, "senza obbligo, da parte del critico, di essere dolce di sale", giacché, a somiglianza di Aristotele, preferisce essere "amico più della verità che non dello stesso Platone".
D'accordo. In tempi di discomania, e di collezionisti arrabbiati di cimeli vocali, è facile cadere nell'errore o nell'equivoco. Ora, se il Dizionario pecca di inesattezze, mentre aspira a guidare gli orecchianti e i dilettanti nell'ascolto di dischi di questo o quel cantante, il risultato di tanta fatica diventa assai discutibile; non raggiunge, dico, lo scopo prefisso: quello di illustrare i valori vocali e interpretativi degli artisti lirici più famosi.
Per fortuna, il Celletti non si fida sempre dei suoi orecchi e del suo gusto personale. Con frequenza cita, a conforto della sua tesi, i testi di studiosi dell'arte vocale e le opinioni di coloro che udirono direttamente le voci trapassate alle quali i dischi non rendono giustizia. Tra coloro si è compiaciuto annoverare lo scrivente, il quale nelle "Voci Parallele" esprime giudizi di prima mano, derivati dalla cooperazione scenica con le Voci registrate. Però alcuni fra i suoi collaboratori, pur attingendo alla stessa fonte, non fanno altrettanto, a voler giudicare, ad esempio, quanto ha fatto colui che, pur servendosi, senza citarle, delle "Voci Parallele" nella parte critica, ne trascura poi la parte biografica, commentando la voce di Lily Pons. La quale, sì, ebbe per agente Maria Gay-Zenatello, ma soltanto da Maria Ros ricevette la spinta iniziale per decidersi ad andare a New York. "Io mantengo - ella scrive - sempre un grato ricordo di Maria Ros, che fu per me la chiave che mi aprì la porta del Metropolitan".
La singolarità di quella voce infatti consisteva nella capacità di attaccare il "fa" naturale sopracuto a bocca chiusa, e arrotondare i suoni. Ond'è che la riproduzione discografica dà a intendere che la Pons dominasse una gamma sonora quasi oscura e voluminosa. Il microfono fa di questi regali e non gli si può sempre riconoscere la fama di "alta fedeltà". Ora, se il collaboratore del Celletti fosse stato più scrupoloso, gli amatori e i cultori del canto avrebbero conosciuto un esempio eloquente di una Voce, che, respinta in patria, poté per la sua capacità e il buon gusto, trionfare dalla notte alla mattina persino sulla ribalta di una massima scena.
Nuovo caso d'inesattezza è dato da un altro collaboratore del Dizionario. A proposito di Lucrezia Bori, egli afferma che la soprano spagnola esibiva "voce limpida e flautata". Limpida sì, flautata, no. E tanto meno "dal suo canto scaturivano suoni di miracolosa trasparenza". Questo proprio, no. I discomani con cotali ameni discorsi, non potranno, di certo, farsi un'idea sia pure approssimativa, della voce di Lucrezia Bori. La quale, specie nelle note acute, strideva e sforzava. Flautata, la voce della Galli Curci, alla quale per contro il critico attribuisce "un timbro più vitreo che cristallino". Vitreo, invece, era proprio quello della Bori.
Tutto ciò accade quando ci si arrischia a giudicare una voce soltanto sulla base della così detta documentazione discografica. Ed allora persino la Pareto, voce calma e pallida, viene presentata come aspra: "a volte, gli acuti suonano un po' striduli".
Al contrario, in tutta la gamma, la soprano spagnola eccelleva per levità di emissione, sorretta dal fiato e dall'intenzione. Ricordo la romanza della "Marta", opera che eseguimmo insieme nella Compagnia del Metropolitan. Niente di più vaporoso e leggiadro ho mai udito in una voce umana. Dunque bisogna andare adagio con i giudizi che s'ispirano al meccanismo degli... elettrodomestici, negatori assidui di ogni spiritualità sonora.
Ma andiamo avanti. Il critico, riferendosi al tenore francese Georges Thill, assicura che la maschia voce del parigino, eccellente esecutore della "Carmen" e dei "Pagliacci", "col metodo di colorire la parola richiama un poco quello di Schipa (a volte si coglie anche qualche affinità di inflessione tra i due tenori)". Non so se il nostro critico abbia mai udito G. Thill, in persona, sul palcoscenico. Posso assicurarlo che il francese somiglia a Schipa come, ad es., chi scrive a Tagliavini. Il fatto è che i dischi ingannano assai spesso e imbrogliano le carte assai volentieri. Abbiamo il caso di Mario Lanza, di cui, giustamente, il Dizionario non fa cenno. La voce dell'italo-americano sfida, in disco, quella di Caruso.
Tutto ciò non vuol dire che il Dizionario de "Le grandi voci" sia opera vana. In genere, le voci grasse e voluminose hanno tutto da guadagnare nella registrazione. Le voci dal timbro luminoso vengono spolpate dalla macchina, ridotte a mal partito. Il cantante lo sa. Se appartiene alla prima categoria, va lieto e fiducioso a incidere dischi; se alla seconda, ci va nervoso e diffidente, sapendo che il tecnico del suono gliene farà di tutti i colori. E, allora, addio interpretazione, ispirazione, estasi, stato di grazia.
La documentazione fonografica, a sussidio del giudizio critico, risulta aleatoria, per chi, in anticipo, non conosca la voce registrata. E' valida invece, utile e necessaria quando chi consulta la compilazione discografica, già conosce le note caratteristiche di quella ed è in grado di riconoscerla o no ascoltando l'incisione.
Si dice, ad esempio, che la voce di Battistini avesse colore tenorile. Per forza. Il disco fa sentire trasportati di un tono sopra i brani eseguiti dal sommo baritono sabino. Ma Battistini otteneva dal suo strumento duttilissimo tutti i colori che convenivano all'interpretazione musicale. Come Cialiapin. La macchina "parlante" - come fu chiamata - è un congegno che va usato con discrezione e intelligenza. Soltanto gli esperti e i provveduti possono trarne informazioni giuste. Altrimenti succedono guai. Una sopranino, di cui recentemente la Scala ha fatto giustizia sommaria, osò affermare in una sua sciagurata intervista che gli autentici cantanti "facevano morir dal ridere". La poverina aveva ricevuto... informazioni, non propriamente attendibili, dalla documentazione fonografica...
Quanto alle informazioni biografiche sul mio conto, il Dizionario notifica: "Si vuole che nello scrivere la parte di Calaf Puccini si sia ispirato alla voce di Lauri-Volpi". Orbene, martedì 7 ottobre 1941 sulla "Stampa Sera", di Torino, Giuseppe Adami nella rubrica "Variazioni scaligere" scriveva: "... desiderato e sognato da Puccini vivente come creatore del Principe Calaf, fu Lauri-Volpi". Il librettista della "Turandot" non avrebbe fatto sì perentorie affermazioni, se non avesse voluto smentire i "si vuole" e i "si dice", a favore di altri tenori che furono interpellati dopo che Lauri - Volpi non si era accordato con i dirigenti scaligeri. Ma creò lui la parte al Metropolitan, e al Colon, appunto perché ai direttori di quei teatri era nota la volontà del Maestro di Lucca.
Dunque, l'esattezza storica va rispettata quando si tratta di compilare dizionari critico biografici. Ma qui la colpa non è del Celletti, che non conoscendo l'esistenza dell'articolo dell'Adami ha voluto lasciare in bilico la notizia, temendo che un eventuale rampollo di qualche artista scomparso, potesse dargli la croce addosso. A parte i rilievi, va riconosciuto che, su moltissime voci, il Dizionario fornisce informazioni adeguate. Il Celletti può dirsi orgoglioso della strenua fatica, compiuta con rovente passione e lucido intelletto.
(da: G. Lauri Volpi - "Incontri e scontri", 1971)
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