martedì 13 giugno 2017

TENORI A CONFRONTO: L'IDEALE DEL TENORE ASSOLUTO NELL'ECCEZIONALE SCUOLA DEL BELCANTO (PARTE II)


Peter Malone illustration for "At the Opera" - "L'elisir d'amore", by Donizetti.

1. ASCOLTO DI "UNA FURTIVA LAGRIMA", romanza di Nemorino dall'opera "L'Elisir d'amore" di Donizetti, nelle registrazioni dei tenori Volpi, Gigli, Pertile e Lazaro


1 a - Una furtiva lagrima (anno reg. 1922)
 

Nel primo ascolto che abbiamo scelto, abbiamo una delle prime registrazioni volpiane, se si eccettuano le primissime registrazioni del 1920, nelle quali si può ancora sentire con chiara distinzione, in modo più evidente rispetto al Volpi successivo, l'influenza della scuola vocale romana ed in particolare di quella del Cotogni. La velocità base dell'orchestra e del cantante, senza tener conto delle fluttuazioni della scansione metrica date dall'uso del rubato e dei ritenuti anche non scritti (ma un po' di tradizione, nel modo di far respirare la frase musicale nel repertorio operistico italiano, e un po' per esigenze strettamente tecnico-vocali) corrisponde a circa 69 - 72 di metronomo alla croma (quindi ad un Andante, in 6/8 ma pensato in due).
Nell'attacco del cantante, riconosciamo immediatamente quella caratteristica tipica di Lauri-Volpi che lo contraddistinse sempre per tutta la carriera: un'emissione particolarmente squillante come una lama che simboleggia un po' la tipica voce tenorile standard, vale a dire come dovrebbe essere la voce tenorile "tout court". Nell'attacco vocale di un fa naturale (sulla vocale U della parola "Una") appena prima del passaggio di registro, che è per il tenore come per il soprano sul fa diesis della regione medio-acuta della voce, Volpi sceglie di partire, al secondo 0.48, con un attacco preso impercettibilmente un poco da sotto per consentire di avere un'emissione sicura e morbida in una zona non troppo comoda, quella dell'area di passaggio che, come diceva anche Pertile, è costituita dalla parte della voce compresa tra mi bemolle e sol della zona medio-acuta della voce tenorile, vale a dire da cinque note, tra le quali anche il fa diesis che, come amava chiamarlo Volpi stesso, sarebbe la nota di saldatura tra il registro medio e quello acuto "di testa". Nello scendere al si bemolle successivo sulla parola "Una" Volpi continua l'attacco sulla vocale U discendendo con un portamento, collegando intelligentemente l'area del passaggio sopra menzionata al registro centrale, oltre al dare alla frase uno stile sempre nobile del tenore dell'Ottocento. Questi appoggi, leggermente da sotto, vengono usati in questa registrazione di un giovane Volpi anche dopo l'attacco, ad es. subito dopo sulla sillaba "ti" della parola "furtiva" e anche sulla sillaba "ma" della parola "lagrima" in quest'ultimo caso perché il tono è poco più alto del si bemolle e più si sale e più i suoni andrebbero maggiormente "girati" (da non confondere però il glissare la voce da riservare a casi limitati nel repertorio con il portare la voce, che è una cosa apparentemente simile ma in realtà, per un orecchio esperto, del tutto diversa!!!).

Giacomo Lauri-Volpi, studente al Conservatorio Santa Cecilia di Roma con il suo insegnante, il celebre baritono Antonio Cotogni

Importante anche far rilevare il classico modo di emettere i suoni sulla vocale A ben timbrati con l'uso di un raccoglimento verso O per non rischiare di avere delle A troppo aperte e indietro nella proiezione sonora, come possiamo sentire subito al secondo 0.53 sulla sillaba "va" della parola "furtiva" e anche sulla sillaba "ma" della parola "lagrima" e anche in seguito sulla sillaba "ca" nella parola "cercando" al minuto 1.43.

Un'altra peculiarità che si nota in questa registrazione è quella di diminuire leggermente il volume dei suoni tenuti, per es. sulla sillaba "ma" della parola "lagrima", passando da una mezza voce a un suono vicino al pianissimo, in soli tre secondi dal secondo 0.55 a 0.57, altro tipico raddolcimento dei suoni tenuti tipico della scuola dell'Ottocento. Il canto volpiano è tutto incentrato sulla morbidezza, sul legato e sulla volontà di non sprecare mai il capitale della voce, tenendo i centri leggeri e svettando a piena voce nella zona acuta quella più propria del tenore, secondo il principio di Cotogni esposto a Volpi, riassunto nell'intervista a Burjasot del 1974 con queste parole: "il mio maestro Cotogni diceva: Figlio mio, canta nei centri, ma risolvi negli acuti, perché il centro è proprio dei baritoni, il registro basso è dei bassi, ma non indugiate, non ingrossate i centri", invitando per quanto riguarda specificatamente la voce tenorile a non caricare i centri, preferendo la mezza voce nei centri e la piena voce per la zona acuta. L'appoggio su "M'ama", al minuto 1.49, viene cercato un poco da sotto, passando sulla nota fa naturale da "vo" di "io vo" a M'a di "M'ama". La sillaba "ma" di "M'ama" discendendo al re bemolle acquista una forma più vicina ad O, al minuto 1.52. Segue l'ascesa dal fa naturale al la bemolle sulla parola "si", sempre portando la voce tra le due note. Da 1.55 a 1.59, sulla discesa della frase alle parole "m'ama" continua, sempre per le esigenze del canto in quel punto dell'aria, a mantenersi nelle A verso la forma vocalica della O.

Al minuto 2.04, sulla sillaba "ve" nella frase "lo vedo", la E sul fa naturale dell'area di passaggio, nell'intervallo di sesta maggiore, passando dal la bemolle centrale al fa sopra, viene presa dando maggior spazio con una emissione vicina alla forma vocalica della O. Dal minuto 2.04 a 2.11 della registrazione, Volpi esegue un bel diminuendo, riducendo la voce al piano-pianissimo, terminando a 2.13 con la sillaba "do" della parola "vedo" ridando volume di voce per poi raddolcire la voce nuovamente fino a 2.16. In tutto ciò, rifuggendo il falsettone e mantendendo la scelta dell'uso della voce di testa. Nella seconda parte della Romanza, molto bella la I ben timbrata a 2.45 sul la bemolle acuto e l'effetto della riduzione della voce al pianissimo sulla parola "sospir", tra 2.56 e 2.58, verso quel canto a fior di labbra tipico delle voci fisiologicamente "di grazia" (come ad es. quella di Schipa), come anche nella cadenza "ah più non chiedo, sol di morir" sul sol bemolle (che è enarmonico di fa diesis, sempre la nostra nota di passaggio o meglio di saldatura, tra petto e testa), tra 4.14 e 4.19, sulla silla ba "rir" della parola "morir". Termina la sua incisione con una classica "messa di voce" (crescendo diminuendo) sul fa naturale, sulla sillaba "d'a" alle parole "d'amor", per ridare di nuovo più voce sull'ultima sillaba "mor" della parola "amor" sull'ultima nota, il si bemolle centrale, diminuendo al nulla la voce.


 
1 b - Una furtiva lagrima (anno reg. 1953, dal vivo)


Nel secondo ascolto scelto, abbiamo qui una registrazione degli ultimi anni di Gigli e dal vivo. Il metronomo oscilla tra 72 e 76 alla croma e siamo di fronte ad una interpretazione nella quale Gigli per certi aspetti fa cose simili a quelle precedentemente offerte in questa romanza cantata tante volte lungo la sua carriera, ma crea anche delle sfumature cromatiche e dei dettagli differenti. Qui siamo davanti ad un cantante unico nel suo genere, che basa il canto specialmente nella zona medio-acuta su quel suo famoso e inimitabile "misto", scambiato da un orecchio superficiale per una voce effemminata, mentre si tratta di un'emissione particolarissima di grande fascino e che permette di non far stancare il cantante, riservando solo a certi momenti un maggior "impegno" del diaframma e l'uso di una piena voce di mascolino impeto drammatico.

La lezione interpretativa gigliana, in generale e tanto di più in questo brano, è quella di un canto spontaneo, fluido, elegante che alterna il suono in "misto" (misto che fu di Masini, Mario e Rubini) dal sapore elegiaco e sognante a momenti di più acceso lirismo, il tutto unito da un fraseggio che avvince l'ascoltatore. Come scrisse Fedele D'Amico “Forse non è un caso che il fraseggio di Gigli attinga le suggestioni dalle notti lunari e silenziose delle colline marchigiane. La sua capacità di definire immediatamente il senso della melodia al suo esordio, alla prima battuta, richiama subito alla mente, ed è subito come dire “Dolce e chiara è la notte e senza vento”.

Questo prodigioso colore dolcissimo in "misto" di Gigli, in questa interpretazione "live", viene impiegato dall'attacco (sul nostro fa naturale vicino al passaggio sulla vocale U con morbido portamento nella quinta discendente) a 0.44 sino al minuto 1.31 (mantenuto in misto anche salendo al la bemolle acuto sul testo "quelle festose"), quando, dalla frase "che più cercando io vo", incomincia ad essere voce piena e addirittura a 1.41 egli aggiunge impercettibilmente una breve "e" appena prima di "M'ama" (portando la voce nell'intervallo discendente fa - re bemolle ) continuando con spavalda voce "di testa" verso il la bemolle acuto, "portando" la voce salendo dal fa al la bemolle sulla parola "sì", anticipata da una brevissima "a" nascosta per assicurarsi l'appoggio facile nell'ascesa. Ripassa a misto su "lo vedo" a 1.52 sino a 2.05 con un pianissimo di levità d'emissione che crea un effetto espressivamente davvero mozzafiato.


Nella seconda parte, si nota una certa tendenza ad arrotondare l'A verso O di "palpiti", a 2.19. A 2.32 si ripassa alla voce piena salendo in voce "di testa" su una I ottimamente emessa sul la bemolle acuto. Un breve diminuendo con lieve portamento nel semitono mi-fa, sulla sillaba "fon" di "confondere", riconduce la voce al suono misto mantenuto fino alla parola sospir al minuto 2.50. Segue due volte la parola "palpiti", cantata sempre arrotondando l'A verso O. Procedendo invece di crescere d'intensità sul fa prima di "Cielo! si può morir" da 3.06 a 3.10 viene mantenuta a mezza voce la nota lunga sulla sillaba "spir" della parola "sospir", poi piccolo portamento al sol acuto e passaggio a "Cielo" non a piena voce, restando a mezza voce fino a 3.31 quando sulla vocale A dell'esclamazione "ah" quasi in lieve diminuendo ripassa all'emissione in "misto" sul successivo sol acuto a 3.35. Poi a 3.43 nell'ascesa "di più non chiedo" apre tutto il condotto per raggiungere a piena voce "di testa" il la naturale acuto emettendo a 3.45 la vocale O di "non" con gola aperta andando verso una A.

La cadenza, che comincia a 3.53, viene eseguita fermandosi leggermente ogni quattro note dell'ascesa delle note veloci di "coloratura" per ritoccare senza fermarsi il la acuto per ridiscendere subito nell'arpeggio alll'altro la centrale inferiore. Brevissimo fiato e riattacco immediato di "Si può morir" (cantato a voce piena) con vocale I ben timbrata tenuta della parola "morir", al quale segue il secondo "si può morir" (emesso in "misto") a 4.03, con ascesa al sol bemole ribattuto sulla vocale I tenuta. Termina questa particolarissima e toccante resa esecutiva da "tenore lirico" a 4.14 con il riattacco in pianissimo sul fa naturale tenuto così per circa cinque secondi sino a 4.19 per scendere con piccolo grazioso portamento finale nell'intervallo di quinta discendente al si bemolle conclusivo.
Il tenore Aureliano Pertile

1 c - Una furtiva lagrima (anno reg. 1923)




Nell'incisione di Pertile, il tempo base è poco più svelto rispetto a Volpi, circa 76 alla croma, ma più regolare come scansione metrica, senza quel continuo rubato dell'incisione di Volpi, dando così l'illusione d'essere in realtà poco più sostenuto nel tempo.
Nell'attacco del cantante, a 0.46, viene sempre usato un appoggio poco da sotto la nota effettiva, per attaccare dolcemente, ma nel caso di Pertile quasi ogni nota viene come leggermente smorzata, questo perché strategicamente una romanza di questo tipo adatta ai tenori di grazia risulta troppo pesante per una voce come quella di Pertile (meno brillantemente squillante a livello fisiologico rispetto a quella di Volpi) e dunque non poteva che essere questo il sistema per affrontare quest'aria.

Qui Pertile si tiene leggero nel peso delle note, mantenendosi in questa leggerezza della sua "mezza voce" iniziale maggiormente aderente a vocali pure solari, passando poi ad una "piena voce" con lucente emissione "di testa" sulla nota la bemolle acuta sulla sillaba "sto", di "quelle festose", al minuto 1.07 e ritornando alla "mezza voce" nuovamente in modo evidente sulla discesa vocale alla parola "sembrò". Anche nel proseguo Pertile rimane più musicista che cantante, nel senso che fa parlare la musica stessa senza interpretare eccessivamente con cambi timbrici molto personali come quelli offerti da Gigli. La sua è una lettura fondamentalmente più verdiana nel modo di affrontare la pagina, pur se lo fa mantenendo la voce morbida. Un po' come Gigli, nel passare alla frase "M'ama", a voce piena, emette come un piccolo "singhiozzo" seguito da "sì, m'ama" ma senza portamento sulla parola "sì", e chiude la prima parte dopo la fermata sulla sillaba "ve" di "lo vedo" con minima riduzione di voce.

Riparte poi, a 2.13, con la seconda parte della romanza, sempre mantenendosi su una mezza voce verdiana, differenziando rispetto all'incipit della prima parte, semplicemente appoggiandosi fraseologicamente sulle sillabe "pa" di "palpiti" e anche "bel cor" con effetto di maggior pathos nella frase, proseguendo logicamente in tal modo molto palpitato nella frase "i miei sospir confondere per poco", risentendo in questo un poco dell'atteggiamento verista dell'epoca della registrazione, per riammorbidire al piano sulla parola "sospir" a 2.45. Il resto sino alla fine si mantiene in questo stile un po' al limite con quello proprio di Donizetti, restando su vocali tecnicamente non così coperte come nel caso di Volpi e dando a queste, in particolare la I e la A maggior risonanza alta nel palato. Nella cadenza canta un solo "Ah sì morir" ben timbrato a piena voce, nell'ascesa la-do-mi bemolle-sol acuto (senza la ripetizione nel classico piano del disegno col sol bemolle al posto del sol naturale, che eseguono praticamente tutti) e conclude tenendo il fa a piena voce, sulla sillaba "d'a" di "d'amor", finendo con un "richiamo al diaframma", a 4.08, nella discesa al si bemolle centrale.

1 d - Una furtiva lagrima (anno reg. : 1926)



Nell'incisione di Lazaro, il tempo è simile a quello di Pertile, ma l'attacco, al secondo 0.08, viene fatto in modo diretto su una U dolce, piccola e in piano, senza portamento nell'intervallo discendente di quinta. La voce risulta avere quel classico vibratino che si sente anche in altri cantanti dell'epoca come ad es. De Lucia, almeno stando all'effetto del suono registrato in grammofono.

Anche nel suo caso, però le A, come per Volpi e Gigli, sono più timbrate con un pizzico di forma vocalica della O. La dizione è discretamente buona, seppur meno precisa di quella di un italiano madrelingua ed il colore della voce, tendente in certi suoni vocalici più al colore nasale (specialmente le E), mantiene di base un timbro sempre velatamente spagnolo. Anche Lazaro comunque ricerca la morbidezza di suono, e forse per questo nella ricerca di un costante legato in "quelle festose" riduce molto la f che diventa quasi una v. A 0.30 tocca appena il la bemolle acuto sulla sillaba "sto" di "festose" senza accentare la nota in modo squillante, interessato più a portare avanti la frase verso la parola "giovani". A 0.50, curioso il modo in cui esegue poco più liberamente lente le note di vocalizzo sulla sillaba "can" della parola "cercando".

A 1.02 raggiunge il fa naturale dell'area di passaggio scivolando sulla sillaba "vo" di "io vo", per permettere alla voce di cantare con "gola aperta", cioè completamente rilassata. A 1.12 anche lui porta la voce, verso il la bemolle acuto, sul "sì" di "sì m'ama". Caratteristico di Lazaro il meraviglioso diminuendo, da 1.25 a 1.31, sulla sillaba "ve" di "lo vedo", che riduce la voce, ma senza chiudere la gola, ad un suono in pianissimo, concludendo la prima parte a fior di labbra. Complessivamente, sia nella prima che nella seconda parte, nonostante fosse uno dei cantanti prediletti da Mascagni, si mantiene lontano dallo stile verista. Verso la fine, salendo nella frase "di più non chiedo" egli, raggiungendo il la naturale acuto tenuto coronato, al minuto 3.19, dà più spazio alla O della parola "non", andando quasi verso la A. Al minuto 3.29 sale di slancio eseguendo una bella "coloratura" snella, raggiungendo di nuovo il la naturale acuto con tipica E tenorile sulla sillaba "chie" della parola "chiedo". Non troppo lunghi i sol acuti (prima naturale e poi bemolle) smussati sulla vocale I della sillaba "rir" nella parola "morir". Conclude con una discesa di quinta su "d'amor" con notevole portamento enfatizzato ad uso espressivo.
2. ASCOLTO DI "O PARADISO" (in italiano), aria di Vasco de Gama dall'opera "L'Africana" di Meyerbeer, nelle registrazioni di Volpi, Gigli, Pertile e Lazaro


N.B. - L'opera è originalmente in francese, ma è stata cantata molto in italiano all'epoca del grammofono, per seguire meglio gli ascolti diamo qui il testo italiano:

"Mi batte il cor... Spettacol divin!...
Sognata terra, ecco ti premo alfin!

O paradiso dall'onde uscito,
fiorente suol, splendido sol,
in voi rapito son!...
Tu m'appartieni, o nuovo mondo:
Alla mia patria ti posso, ti posso offrir!...

Nostro è questo terreno fecondo,
che l'Europa può tutta arricchir!...

Spettacolo divin, in te rapito io son!
O nuovo mondo, tu m'appartieni,
tu m'appartieni, a me, a me, tu m'appartieni, a me.
O nuovo mondo tu m'appartieni,
tu m'appartieni, a me, a me, a me, a me!"
Lauri-Volpi - Teatro Liceo di Barcellona, 1972

1 a - O paradiso (anno reg. : 1930)


In una registrazione del 1933 presso la Fonoteca Nazionale Italiana, Lauri-Volpi, intervistato dal musicologo Gavino Gabriel, parla dell'Arte del Canto, affermando tra le altre cose un punto cruciale della voce ed in special modo di quella tenorile: "Lo scoglio più pericoloso è la nota che altri chiama "di passaggio" e che io amo chiamare nota "di saldatura" tra il cosiddetto registro medio e quello acuto. Nella voce del tenore questa nota è il sol bemolle e la sua caratteristica difficoltà può essere agevolmente rilevata anche da un profano in quei brani musicali che di tale nota impongono l'attacco scoperto non preparato da altre note." Dal punto di vista tecnico la nota di passaggio sol bemolle come in questo caso (o l'enarmonico fa diesis in altri casi del repertorio lirico) viene presa da Volpi in "O paradiso" con vocale O pura, come lui stesso spiega e dimostra (in effetti seguendo le indicazioni stesse dello spartito musicale, vale a dire un attacco sul sol bemolle, con indicazione di "dolce e sostenuto" e con l'orchestra di sottofondo in "piano"); mentre dal punto di vista interpretativo, seguendo le sue stesse parole testuali: "nell'Africana, esultanza eroica per la bellezza ferace della terra, conquistata la patria"! Tenendo a mente questa lezione volpiana, e le considerazioni generali di Celletti sull'amico Volpi :
<<(...) elemento da tenere presente, in materia di attori vocali, è il peso del fatto tecnico sul timbro e sul fraseggio. Voci come quelle di Lauri-Volpi, ad esempio, di Pertile, di Pasquale Amato rispecchiavano anche timbricamente una fonazione in maschera applicata fino alle estreme conseguenze. […] Lauri-Volpi era un notevole attore vocale, nel repertorio romantico, anche perché l’emissione in maschera dava al timbro e allo smalto la purezza e le vibrazioni iridescenti degli amorosi idealizzati>> (da: Rodolfo Celletti - "La grana della voce: opere, direttori e cantanti" - Baldini & Castoldi, 2000)
...procediamo all'ascolto.

In questa pagina operistica, il nostro cantante di Lanuvio, rimane tenore romantico della Scuola d'emissione, di pensiero e di stile del bel canto dell'Ottocento fin dall'attacco, a mezza voce, a 00.42 eseguito appoggiando il re bemolle d'ingresso su un piccolissima h (acca) appena precedente la parola "mi" di "mi batte il cor" inciso di frase che viene chiuso sul re bemolle quasi sfumato sulla parola "cor" emettendo la vocale "o", a 00.44 con il suo tipico modo, immediatamente riconoscibile, di fonazione vocalica leggermente aperto quasi alla risonanza della A, leggero ma intenso nella proiezione sempre avanti del suono. Nel secondo inciso sceglie, a 00.52, di rimarcare fraseologicamente la sillaba "ta", quasi allungandola di pochissimo, della parola "Spettacol" e sfuma la "i" della successiva parola "divin", tra 00.53 e 00.55. Nel terzo inciso "sognata terra" riparte, a 1.02, dal re bemolle appena lasciato, con un maggior squillo di voce nel suo caratteristico impasto di metallo sonoro, e arrotonda verso O le "a" della parola "sognata", specialmente la seconda "a", il che gli permette di scendere comodamente, a 1.04, con portamento espressivo dalla sillaba "ta", di "sognata", verso il si doppio bemolle sulla successiva parola "terra". A 1.08 la "e" di "premo" viene emessa come e aperta ben timbrata. Anche la "i" pura, conclusiva della parola alfin, sul re bemolle, tra 1.09 e 1.12 viene musicalmente smorzata con garbo.

A 1.15 conduce il primo inciso melodico "O paradiso", a mezza voce, emettendo il sol bemolle (passaggio di registro) leggerissimo sul fiato con dolce portamento discendente tra questa nota e il re bemolle successivo collegando "O" con "pa-" di "paradiso" (nella cui parola tiene sempre le "a" molto raccolte con un po' di O dentro) in perfetta fusione del registro di testa con quello centrale. Poi dall'inciso subito seguente, "dall'onde" in avanti, canta con il suo tipico squillo di voce, cioè la voce si impenna di nuovo con le caratteristiche del suo strumento proprio, il lirico-spinto, riattaccando il nuovo inciso, a 1.24, appoggiandolo con piccolo suono vocalico precedente a "dall'onde" (e-dall'onde) e continua l'inciso con delle piccolissime acca (H) dall'o(ho)nde usci(hi)to.
Piccolissimo appoggio vocalico precedente anche all'inciso seguente, a 1.33, (e-fiorente suol) e fa risuonare con squillo intenso il mi bemolle sulla parola "suol", a 1.36. A 1.38 la "e" di "splendido" risuona aperta quasi vero A e sempre, nel vocalizzo, mette piccole acca (H), a 1.39, sple(he)(he)ndido (e lo fa anche dopo, laddove ci sono piccoli passi vocalizzati) e tra 1.40 e 1.42 fa risuonare pieno di lucente squillo anche il re bemolle sulla parola "sol". Sale verso il fa appresso al passaggio di registro sulla parola "son", nota che viene tenuta libera e piena da 1.46 a 1.50. A 1.51 sempre cantando appoggiandonsi con il metodo suddetto (e-tu) compie, a piena voce, un portamento tra 1.52 e 1.53 passando da sol bemolle a si bemolle acuto che viene anticipato metricamente al quale fa seguire, già preso comodamente l'acuto il cambio di sillaba, che avviene a 1.53, in "m'a" di "m'appartieni", rimarcando la "m" quasi come fosse doppia. Dal si bemolle acuto un poco tenuto ma non troppo a lungo fulgidamente squillante e totalmente libero d'emissione scende nella scala verso il re bemolle. A 2.09 prende (con piccolissima h nell'attacco) molto raccolta la prima "a" di "alla" quasi fosse una O, mentre a 2.11, rispetto allo spartito Ricordi, anticipa sul si bemolle centrale la sillaba "mi-" di "mia", vale a dire che invece di fare "la" su due note sol bemolle - si bemolle e poi "mia" sul re bemolle esegue "la" sul sol bemolle centrale, cambia subito nella sillaba "mi-" sul si bemolle e passa, legando, al re bemolle, alla sillaba "-a", a 2.12, molto raccolta quasi in O. Bellissima la salita sicura sempre con portamento, tra 2.17 e 2.18, che avviene sulla prima vocale "o" di "posso" (ma nel portamento per passare di registro, tra si bemolle centrale e il sol bemolle sul passaggio di registro, muta con saggezza leggermente in A, per dare spazio alla voce). A 2.20, rispetto allo spartito Ricordi, cambia la parola "posso" in "voglio".

Nel baldo inciso che ascende verso la nota di passaggio nella frase "Nostro è questo terreno fecondo" si può sentire come cambi da fa a sol bemolle sulla prima vocale "o" della parola "fecondo" ("o" sul fa - "o" sul sol bemolle), a 2.34, girando la nota di passaggio in modo squillantissimo "in testa". A 2.56, nella frase "in te rapito io son" sul mi bemolle alla parola "te" aggiunge espressivamente una tono di lacrima nell'accento della parola, e porta la voce tra 2.58 e 3.00 discendendo da fa bequadro a la bequadro collegando la sillaba conclusiva "-to" di "rapito" con il successivo "io". Nello scandire con entusiasmo il successivo "o nuovo mondo" si sofferma efficacemente un poco sulla "m" (monn - do), ed il secondo "tu appartieni" che risale al sol bemolle, nota di saldatura, scatta prodigioso nuovamente il suo squillo di puro metallo sulla sillaba "tie", della parola "appartieni", tenuta da 3.08 a 3.12 per circa cinque secondi, poi di nuovo canta con raddoppiamento della "m" per salire di slancio nella quarta tra re bemolle e sol bemolle sul passaggio (a mme) tra 3.14 e 3.15, raddoppiamento che ripete anche sotto nel successivo "a me" tra fa e sol bemolle centrale restando nel carattere eroico tenorile del personaggio.

In cadenza a 3.25 nel terzo inciso, diversamente dall'ed. Ricordi che leggeva "tu m'appartieni, a me, a me" sceglie di rendere questo inciso melodico invece con un semplice "tu appartieni" legando i semitoni si bemolle-do bemolle-re bemolle, vocalizzando, tra 3.26 e 3.27  sulla vocale "e" di "appartieni" e passando alla sillaba conclusiva "-ni" sul mi bemolle successivo, evitando il re bequadro, a 3.28. Conclude con netta sicurezza d'emissione nella salita, a 3.29, facendo impennare la voce di slancio, nell'intervallo di quarta, tra fa appena sotto al passaggio e si bemolle acuto, ancora una volta raddoppiando la "m" (a mme) e tenendo brevemente il si bemolle acuto tenorilmente squillantissimo, tra 3.30 e 3.31, brevissima pausa, riprende fiato e a 3.32 conclude spostando la corona da si bemolle acuto a la bemolle, nota che tiene, sulla vocale "a" da 3.32 a 3.35 per circa quattro secondi e discende anticipando il sol bemolle conclusivo sul passaggio a 3.36 cambiando poi nella parola "me" sulla medesima nota che tiene fino a 3.39, per circa tre secondi, chiudendo in modo netto.

GIGLI - 1.1.1938 Teatro Reale dell'Opera. Vasco de Gama (Africana)

1 b - O paradiso (anno reg. : 1923)



Nell'ascoltare questa famosa aria di Meyerbeer incisa da Gigli è necessario tenere presenti le paroli di Volpi in merito: <<(...) la mia ammirazione per la voce di Gigli non data da oggi. Egli uscì da Santa Cecilia, in Roma, quando io vi entravo. Giunsi in tempo per udire, nel suo ultimo saggio, a primavera, come sapeva modulare “O paradiso dall’onde uscito”. Non ho più dimenticato le due prime misure e quell’attacco della prima nota: davvero un paradiso. Allora, la sua voce era limitata in estensione: ma quale levità e preziosità di timbro!

Col tempo e l’esperienza, con tenacia di volontà e di generosa ambizione, riuscì ad ottenere le note superiori necessarie, che la natura gli aveva negato. Già nell’esordio, con la “Gioconda”, aveva conquistato il pubblico con i “suoi” “misti”, che sono rimasti famosi. Molti, moltissimi, anche nel campo della così detta musica leggera, hanno cercato d’imitarli. Ma quelli di Gigli erano frutto della benefica natura e dell’abitudine al canto mistico. I plagiatori invece denunciano l’artificio e la loro ambiguità vocale. Alla Scala, Gigli, si sarebbe rivelato in piena luce, dirigendo Toscanini, “Al soave raggiar di primavera”, la ispirata frase del “Mefistofele” boitiano: diede la misura di come si possa con la dosatura del minimo soffio, raggiungere la più valida espressione dell’estasi vocale. Mai si era udita una voce più delicata, candida, spontanea.

E queste, e non altre rimasero le autentiche caratteristiche dell’arte gigliana: delicatezza, candore, spontaneità. Nelle ore in cui tali virtù erano messe in evidenza, la voce dell’usignolo di Recanati risuonava in tutta la sua munificenza di tono di colore di musicalità. Ascoltiamola nel “Sogno” della “Manon”, nell’ “Invocazione al Cigno” del “Lohengrin”, nell’aria della “Marta”. Resteremo incantati dalla sua tenera malia, dalla sua magia insinuante e insieme placida, soavissima.>> (in: “Delicatezza candore spontaneità questa l’arte di Beniamino Gigli” - Giacomo Lauri Volpi ricorda l’usignolo di Recanati - Momento-sera, 6 dicembre 1957)

Teniamo presente anche il tipo di visione interpretativa descritta dallo stesso Gigli, intervistato dal giornale "Arena, "il 28 luglio 1932 - Verona, in occasione delle recite di "Africana" a Verona :

<<Dal primo successo di Parma, ove proprio con la romanza 'O paradiso' dell'Africana, vinsi un concorso per un premio di incoraggiamento, al primo debutto a Rovigo, ove volli proprio in questo anno ritornare per un concerto, a ricordare il teatro da dove iniziai la mia marcia di messaggero di bellezza e di poesia, è stato un susseguirsi di tappe, fra queste, anzi fra le migliori, pongo i miei successi dell'Arena, poiché essi hanno rappresentato anche il mio primo cimento con il teatro all'aperto. L'Africana quasi cavallo di battaglia".

- Lei quindi è contento di essere stato chiamato a interpretare L' "Africana"?

L'Africana è per me quasi un cavallo di battaglia perché il tenore in essa ha una parte drammaticamente virile e di assoluto primo piano. E' una parte che io sento e che amo, e che si confà al mio spirito.
Il dramma dell'Africana, accompagnato da una musica di carattere melodico, ma satura di poesia rapsodica assicura all'interpretazione una larghezza di mezzi di cui spero di approfittare, in modo da dare una edizione, di questa vecchia, ma suggestiva opera, che possa piacere al pubblico veronese. L'anno passato riesumai l'Africana al Metropolitan di New York, riportando uno schietto successo; poiché è certo, che si tratta di un'opera che giunge facilmente al cuore degli spettatori".>> (l.p. "Arena", 28 luglio 1932)

Nell'edizione dell'aria di Vasco de Gama che abbiamo scelto, possiamo apprezzare proprio quella levità, quelle caratteristiche di delicatezza, candore e spontaneità e tenera malia soavissima menzionate dal collega Lauri-Volpi, così ben espresse nell'attacco, a 0.16, da un giovane Gigli. Anche qui, fin da subito, si nota l'arrotondamento verso O della vocale "a" nella frase iniziale "Mi batte il cor".

Dopo i primi tre interventi,  con conclusiva nota tenuta con l'effetto di una dolce bella sfumatura di lieve diminuendo, tra 0.43 e 0.46 sulla vocale "i" della parola "alfin", che prepara l'atmosfera dell'attacco del tema dell'aria, Gigli attacca, a 0.48, il sol bemolle (nota di passaggio) in modo netto sulla vocale "o" con colore dolce, quasi femminile (rendendo esecutivamente quel "dolcissimo" segnato sullo spartito) e continua la linea tematica principale di "O paradiso" nella sua caratteristica vellutata mezza voce su posizioni raccolte di suono, risparmiando così la voce, in modo sempre strategico, e creando al contempo una poetica atmosfera che si addice alla situazione di questo momento della vicenda dell'opera.
La sua vocalità, in particolare modo qui, per usare un'espressione usata spesso dal tenore Ugo Benelli, appare "aperta ma coperta".
Al secondo 0.50 piccolo portamento discendente, dal sol bemolle del passaggio verso il re bemolle inferiore, sulla vocale "o", e appena dopo esservi giunto cambia a 0.51 la parola nella prima sillaba "pa-" della parola "paradiso". Subito dopo, tra 0.51 e 0.52, ancora lieve portamento tra re bemolle e si bemolle. Tronca la nota a 0.56, respiro, e riattacca appoggiandosi con quel piccolo colpo di glottide di cui parla Giulietta Simionato nel filmato-documentario "Belcanto - The Tenors of the 78 Era" del 1996.
Continua da 0.57 sempre con questi piccoli "appoggi" un po' aspirati con l'acca (H) a sottolineare le crome vocalizzate, in questo modo : (he)dall'o(-ho)nde(-he), e poi le biscrome vocalizzate, in questo modo : fio(-ho)(-ho)-rente sple(-he)(-he)ndido, e di nuovo la croma vocalizzata, in questo modo : i(-hi)n. Sale quindi verso il fa naturale appena prima del "passaggio", nota che tiene, da 1.22 a 1.26 lasciandola espandere a gola aperta su vocale "o" aperta verso la forma della A, ma senza crescere di volume.
Segue l'attacco, a 1.27, della zona in voce di testa alle parole "Tu m'appartieni". Tra 1.29 e 1.30 sale portando con scivolamento elastico della voce al si bemolle acuto che emette "di testa" e a piena voce, seguendo nella pratica la medesima idea tecnico-vocale esposta diversi anni dopo nella sua "Lezione introduttiva" tenuta a Londra nel dicembre 1946 :

The vowels EE and EH, OH and OO, are narrow sounds, in degree, on the low and lower medium notes. But once we are on the high pitches they must be given ample space for development, just as if they were of the same "aperture" as the AH vowel.

Le vocali "I" ed "E", "O" e "U", sono suoni stretti, nel grado, su note medie basse e più basse. Ma una volta che noi siamo su altezze di tono acute dev'essere dato loro ampio spazio per svilupparsi, proprio come se fossero della stessa "apertura" della vocale A.

Anche nell'estratto video che riprende l'esecuzione di Gigli allo Sportpalast di Berlino nel 1932, egli sposta il "m'ap-" di "m'appartieni" sul successivo sol bemolle, preferendo, piuttosto che cambiar sillaba sull'acuto, portare la voce legando il sol bemolle, nota di passaggio, o meglio di saldatura (come la chiamava Lauri-Volpi), sulla vocale "u" di "Tu", al si bemolle acuto, sempre tenendo la vocale medesima che viene però aperta di spazio per azione del cadere naturale della mandibola! In tal modo si raggiunge così una posizione vocale comoda per la voce umana su quell'altezza acuta di suono. In questo, Gigli fu perfettamente in linea con quello che disse vari anni dopo a Michelangelo Verso quando questi gli chiese : "Commendatore, ma come fa gli acuti?" ed egli rispose: "Il colore dev'essere come uno strumento... e non pensare alle vocali, pensa a un suono, la voce dev'essere un suono".

Tornando al nostro audio gigliano del 1923, tra 1.34 e 1.35, scende con portamento di voce dal si bemolle acuto al la bemolle acuto. Sempre ad 1.35 poi prende fiato e riattacca a 1.36 sul sol bemolle mettendo il "m'ap-" di "m'appartieni". Continua sottolineando la "a" di "m'ap-" nella discesa al fa naturale, in questo modo: m'a(-ha)ppartieni, spostando la sillaba "par" di "m'appartieni" sul mi bemolle. Tutto questo punto dell'aria è condotto a piena voce, per poi ripassare a 1.43 ad un'emissione più contenuta. A 1.57 dà un accento di pianto alla parola "patria" che tronca in modo brusco tra 2.01 e 2.02. Piccola pausa e riprende con voce raccolta a 2.03, passa a 2.06 al sol bemolle sulla sillaba "so" della parola "posso", tenuta, un poco coronata, sino a 2.08 e chiudendo la prima parte dell'aria con nettezza di carattere.

Di conseguenza la seconda parte viene iniziata nei due incisi "nostro è questo terreno fecondo" (con scala ascendente) e "che l'Europa può tutta arricchir" (con scala discendente) con una certa spavalderia.
A 2.34 muta nuovamente al clima "dolce" indicato nello spartito alle parole "spettacolo divin". A 2.37 emette una "i" brillante sul fa naturale vicino al passaggio. Lega poi a 2.40 nella sesta ascendente collegando morbidamente si bemolle a sol bequadro acuto e di nuovo tra 2.43 e 2.44 ridiscende con portamento legando nella sesta discendente il fa bequadro, sulla sillaba "-to" di "rapito", al la bequadro inferiore, sulla parola "io".
Riparte con baldanza entusiasta sulle biscrome alle parole "o nuovo mondo" e "tu m'appartieni". Al terzo inciso ripetendo "tu m'appartieni" tiene il sol bemolle sul passaggio da 2.53 a 2.57 (per poco più di quattro secondi) e poi, tra 2.57 e 2.58, esegue un'agilità con quartina di volta sulle note fa sol bemolle la bemolle sol bemolle, arrivando al fa naturale cambiando nella sillaba "-ni" conclusiva della parola "appartieni". Il disegno melodico, nel "poco rall.", scende verso il sol bemolle centrale e Gigli marca tre volte la "m", come se dicesse "ammè" le parole "a me" del testo scritto. Dopo la breve cadenza libera, senza l'accompagnamento dell'orchestra, a 3.17 riattacca, assieme all'accordo di dominante dell'orchestra, il fa naturale prossimo al passaggio sulla vocale "a" e passa, sempre in modo elastico nella quarta ascendente, a 3.19 sul si bemolle acuto, tenuto sino a 3.21 sulla vocale "e" della parola "me", qui emesso in modo squillantemente tenorile "di testa" con posizione vocale assai alta e chiara di colore. Acuto chiuso in modo netto tra 3.21 e 3.22, breve pausa, riattacco del successivo la bemolle acuto, tenuto da 3.23 a 3.27, sulla vocale "a" ma cantata in modo istantaneamente più coperto, verso la O. Chiude con carattere virile anticipando il sol bemolle, sottolineato sulla "a" precedente e poi cambiando sul medesimo sol bemolle nella parola "me", con questo effetto: a (ten.) - hammè. Tiene infine il sol bemolle sul passaggio sulla vocale "e" sino a 3.31 (per circa tre secondi).




1 c - O paradiso (anno reg. : 1932)


In questa incisione di Pertile, notiamo come il tenore di Montagnana si mantenga qui più vicino allo stile belcantistico. Apprezzabilissimi i tre attacchi da "recit. a piacere" (come indicato nello spartito) iniziali, nel primo (a 0.05) e secondo intervento vocale (a 0.14) Pertile appoggia, come è naturale che sia, l'ultima nota, vale a dire l'ultima sillaba dell'inciso: la parola "cor" e la sillaba "-vin" della parola "divin" timbrando bene la "i" conclusiva. Offre in questa parte introddutiva prima del tema una grande morbidezza sia di attacchi di suono che di chiusure di suono. Al secondo 0.28 nel terzo intervento vocale, marca espressivamente la "a" finale della parola "terra" immascherando bene la vocale. Bello anche il lieve sfumato in diminuendo della vocale "i" di "alfin", tra 0.32 e 0.35, preparando l'atmosfera il cantabile tema principale dell'aria.

L'attacco morbido e in una dolce "mezza voce" avviene sul sol bemolle, nota di passaggio, seguendo proprio l'indicazione "dolcissimo ma sostenuto" presente nello spartito al secondo 0.38 su una "o" raccolta che apre lievissimamente il secondo dopo a 0.39, continua poi legando la linea melodica. A 0.46 marca sempre l'ultima sillaba "-so" della parola "paradiso" e porta un poco la voce nella quinta la bemolle - mi bemolle tra 0.54 e 0.55 sulla vocale "i" della parola "uscito". Dopo l'ascesa vocale salendo al fa prima della nota di passaggio, tiene questa nota aggrappata alla maschera, alta, sulla vocale "o" della parola "son" con connotazione di A. Anche il sol bemolle di passaggio viene riattaccato sulla parola "Tu" con gran morbidezza a 1.16, poi a 1.18 la voce s'impenna con sicurezza nel portamento tra sol bemolle e si bemolle e Pertile anticipa il si bemolle acuto scritto sulla vocale "u" subito seguita dal cambio di sillaba sempre sul si bemolle acuto in "m'a(p)-" di "m'appartieni" e tiene l'acuto coronato da 1.18 a 1.21 per quasi quattro secondi, scendendo poi a 1.22, marcando ad ogni secondo ogni semicroma tenuta, con tempo dilatato rispetto allo spartito. Le frasi che seguono da 1.30 in poi sono sempre legate, ma con un po' di sottolineature di glottide tra le note, chiude la prima sezione marcando teatralmente, a 1.56, le due sillabe della parola "of-frir". A 2.16 sulla parola "arrichir" raddolcisce la voce preparando così il P (piano) e "dolce" di 2.21 alle parole "Spettacolo divin!" Balda e scultorea la voce nei tre incisi dell' "affrett. a poco a poco" a 2.35, alle parole "o nuovo mondo, tu m'appartieni". Tra 2.53 e 2.54 portamento sulla vocale "e" di "appartieni" congiungendo i suoni centrali do bemolle con fa inferiore, e chiude con l'ultimo "a me" sulle note centrali fa e sol bemolle, marcando una doppia "m" in tal modo: "ammè". Segue cadenza, a 2.57, e conclusione a 3.07 con un fa prima del passaggio su vocale "a" (ma sempre un po' raccolta, di fatto la emette su una O cambiata subito in A) e ascesa sicura e diretta al si bemolle acuto sulla seguente parola "me". Acuto tenuto su sfavillante "e" a piena voce, di testa ma mantenendo lo spessore della corporatura della voce, da 3.08 a 3.12 per circa cinque secondi. Termina in modo sfogato con un la bemolle acuto tenuto da 3.14 a a 3.20 (che addirittura carica un po' a 3.18), scendendo di  tono con portamento a 3.20, sulla vocale "a" (anticipando il sol bemolle), al sol bemolle conclusivo (la nota di passaggio) sulla parola finale "me" a 3.21, chiudendolo netto a 3.24.


1 d - O paradiso (anno reg. : 1911)


Nell'incisione di un giovane Lazaro, attacca l'aria a 0.06 sulle parole "Mi batte il cor" con voce raccolta e chiara, in modo proprio al centro della voce, che costituisce, mai dimenticarlo, il registrato del parlato. Continua così tenendo la voce ben posizionata, alta e in punta, senza alcuna spinta, bensì sul soffio del fiato che esce nei primi tre incisi alle parole "Mi batte il cor... Spettacol divin!... Sognata terra, ecco ti premo alfin!" Da notare le belle "i" tenute, ben timbrate e avanti, a 0.19 e a 0.34 rispettivamente sulla parola "divin" e "alfin".
A 0.40 attacca sempre con grande morbidezza il sol bemolle, nota di passaggio, emettendola sul soffio con piccola inflessione in crescendo, dando l'impressione di dare alla O iniziale di "O paradiso" la connotazione di una apertura alla A, ma sempre ben immascherata. Continua tenendo leggeri i centri, nella via di Volpi, sino a 1.16 quando alle parole "rapito son" sale con la voce verso il fa poco prima del passaggio, scandendo le semicrome con un po' di lieve acca (H) in questo modo "ra - ha - pi - to". Segue l'ascesa al si bemolle acuto, tipicamente da tenore "espada". Qui a 1.24 passa dal sol bemolle sulla parola "Tu" e continua con naturale portamento la "u" mantenendola nell'inizio del si bemolle acuto a 1.25 (ed in questo aprendo e lasciando vibrare la nota squillante e tagliente come una spada dà la connotazione della forma vocalica di A in questa seconda parte del si bemolle sulla "u") per poi passare, sempre sul si bemolle acuto, la vocale "u" alla sillaba "m'a-" di "m'appartieni" al secondo successivo a 1.26. Quindi in sintesi così: Tu (sol bemolle) -u (si bemolle anticipato di una croma rispetto all'orchestra) m'a- (si bemolle tenuto coronato, assieme all'orchestra, per un valore complessivo di quattro crome). A 1.29 scende vocalizzando sulla "a" sino al cambio di sillaba a 1.31 e poi smussa la "i" finale a 1.34 della parola "appartieni", preparando così il riattacco morbido di 1.36 sulla "o" di "o nuovo mondo" e conducendo il proseguo del suo canto con morbidezza e risparmiando la voce, sino a quando a 1.52 accenta la sillaba "pa-" della parola "patria" e arrivando a toccare nuovamente il sol bemolle, passaggio di registro, con una certa dose di squillo a 1.58 sulla sillaba "-so" della parola "posso", sempre tenuta chiara e andando un po' verso l'apertura della forma vocalica della A, concludendo la frase "ti posso offrir" e la prima parte dell'aria a 2.07.

Segue a 2.08, la seconda sezione introdotta da un baldo ritmo di terzine di semicrome e di ritmo francese e a 2.12 riparte la voce tenorile di Lazaro che si mantiene comunque leggero, mai spingendo, ma agendo di risonanze. Dopo l'ascesa del disegno melodico, a 2.21 fa una piccola fermata naturale sul fa poco prima del passaggio, emettendo una "o" chiusa, molto raccolta, non aperta, sulla sillaba "ro" della parola "Europa", e ridiscende con il disegno melodico, ritenendo il tempo. A 2.28 continua seguendo l'indicazione di "dolce" presente nello spartito. Al minuto 2.43 nelle tre impennate, affrontate con entusiasmo, costituite ciascuna da tre biscrome con salto di quarta finale, prima partendo dal si, poi ripetendo il disegno melodico sul do, e infine sul re bemolle. Notare come tenga chiare le "a" di "m'appartieni" con effetto momentaneo di suono aperto.
A 2.51 tiene il sol bemolle, la nostra nota di passaggio o se preferiamo di saldatura, su una bella "e" timbrata e perfettamente immascherata e limpida. Al minuto 3.00 abbiamo un portamento discendente tra il sol bemolle e il si bemolle inferiore (in questo portamento discendente, coprendo leggermente verso O, consentendo il comodo passaggio di registro tra zona di testa, sol bemolle, e zona centrale, si bemolle inferiore) sulla "e" della parola "me". Altro portamento, a 3.04, sempre sulla "e" di "me", nella zona centrale, tra do bemolle e fa naturale inferiore. Nella cadenza finale, notiamo sempre come schiarisca le "a" di "m'appartieni" e si mantenga leggero nei centri. Infine a 3.17 emette "di testa" e a piena voce, un si bemolle coronato, preso in modo netto e sicuro, su una squillantissima "e" della parola "me" che tronca a 3.21. Piccola pausa, per riprendere fiato, e poi conclude con "a me" sulle note la bemolle tenuto e sol bemolle, in questo un po' coprendo con tinta di O nell'attacco sul la bemolle a 3.22 e subito sciolto in A, un secondo dopo, a 3.23, e scende con piccolo portamento di voce tra 3.25 e 3.26 sulla vocale "a" anticipando il sol bemolle, per poi terminare sulla parola "me" sul sol bemolle conclusivo scritto.


3. ASCOLTO DI "DI QUELLA PIRA", cabaletta di Manrico dall'opera "Il Trovatore", nelle registrazioni dei tenori Volpi, Gigli, Pertile e Lazaro



1 a - Di quella pira (anno reg. : 1941)



Nell'incisione di Volpi, notiamo già dall'attacco della Cabaletta, al secondo 0.12, come il tenore di Lanuvio riesca ad ottenere contemporaneamente due cose: il carattere spavaldo dell'eroe verdiano insieme al mantenimento della voce chiara e mai spinta innaturalmente. La sua è una interpretazione ricca di squillo tenorile e perfetta dizione. Con la strategia esposta nel 1949, nel suo diario personale (poi pubblicato in seguito), costituita dal "supplire al volume inesistente delle regioni centrali e gravi, l'accento, la dizione che risparmia fiato e mantiene e sviluppa le articolazioni orali e proietta il suono nello spazio", egli potè così cantare pure un repertorio drammatico in modo magistrale, puntando sulla declamazione nella zona centrale, mai ingrossando nel vano tentativo di "baritonaleggiare" e risparmiarsi per svettare in acuto, nella tessitura più propriamente avvincente della voce tenorile, quella acuta. Gli acuti come il si naturale a 0.31 non vengono presi in modo duro, bensì morbido, sempre "di testa", non in falsetto o falsettone per capirci, ma non eseguiti in modo stentoreo o forzato. La sua preoccupazione tecnica è più quella di basarsi sulla sicurezza del fiato al servizio della colonna del fiato-suono portata su a lambire le risonanze cerebrali alte, escludendo così l'impantanamento nella gola. A 0.35 arrotonda leggermente di più i suoni vocalici, tendendo ad andare verso O in alcune vocali, specie le prime "a", in "Era già figlio" e in "pria d'amarti", poi notiamo come tenga leggera la "i" finale nella parola "martir", della frase discendente "Non può frenarmi il suo martir", andando verso un suono vocalico di E, ma leggera eppur ben timbrata, mentre leggerissima la "i" schietta della parola "salvarti", in "corro a salvarti", a 0.51, appena prima dell'ascesa a 0.52, sulle note sol - do acuto, sulle sillabe "O te-" di "O teco almeno", do acuto tenuto, tra 0.53 e 0.56, per ben 4 secondi. In questa rapida ascesa, Volpi "porta" la voce con opportuno scivolamento sulla lettera E di "O te-" salendo al do acuto emesso "di testa", ma invece che pressarlo in modo stentoreo di più, nel tenerlo, quasi lo alleggerisce, inserendolo in una linea circolare legata che si chiude nella discesa di semitono, al si naturale acuto sulla sillaba "co" della parola "teco". A 1.08, nel salto di settima, dal si centrale al la naturale acuto, utilizza lo stesso metodo, nel creare quell'elastico morbido nell'intervallo ampio di settima, sempre poi tenendo il la acuto con un'emissione non stretta della E, bensì a gola libera. A 1.14 sino a 1.19 nota tenuta un poco e discesa con portamento, sulla parola "morir". Nel momento orchestrale (nella registrazione, senza coro, non essendo un live in recita in teatro) da 1.20 a 1.54 il cantante, si riposa vocalmente e prepara mentalmente la sua ascesa finale che è una delle cose più difficili dell'intera letteratura tenorile. A 1.55, dopo i due "all'armi", abbiamo una vera e propria impennata della voce, a 1.58, nell'intervallo sol - do acuto. Il do acuto viene preso di nuovo non come ci si aspetterebbe ingrossando la voce sull'acuto, ma al contrario facendo affidamento su controllo di fiato e perfezione di posizione dell'acuto, spingendo meno con il fiato, anzi controllando la lenta fuoriuscita del fiato costante in unione di un naturale "squillo". Sul do acuto, preso e tenuto a 1.59 sulla sillaba "ar" della parola "armi", Volpi cambia  a 2.04 dalla sillaba "ar" alla sillaba "mi" e tiene il do acuto squillante "di testa" sino a 2.09 sulla vocale I, ma dandole più spazio, per la necessità dell'altezza di posizione, come fosse il suono vocalico di una E. Straordinario cantore che, nonostante il progressivo cambiamento di gusto e d'epoca, non venna mai meno, nel suo canto, ai saldi principi del Bel Canto dell'Ottocento.
1 b - Di quella pira (anno reg. : 1940)


L'interpretazione di Gigli della Cabaletta verdiana incisa nel 1940, è sempre nella linea della sua estetica canora, quella del canto prima di tutto e della spontaneità del canto per sè e in sé stessa (al contrario del rivale di una vita, Volpi, il quale invece concepiva la voce come primariamente teatrale e dunque il Manrico volpiano, come tutti gli altri personaggi da lui tratteggiati, dovevano essere inquadrati innanzitutto perfettamente dal punto di vista della centratura del personaggio ed in secondo luogo, quasi di conseguenza a ciò, anche vocalmente e musicalmente resi coerentemente al tipo di storia e di personaggio ci si trovasse di fronte).
Interessante, dopo l'attacco a 0.23 come, tra 0.25 e 0.26, sulla vocale "a" di "pira" metta un portamento, collegando "Di quella pira" con "l'orrendo foco" (medesima cosa che fa a 0.31 tra la "e" di "fibre" e "m'arse"). A 0.27 esegue la quartina veloce sulla sillaba "fo-" della parola "foco" con un po' di acca per ogni nota della quartina, medesima cosa fa a 0.32 sulla sillaba "ar-" di "m'arse". Poi, a 0.35, nel riattacco declama staccando di più le varie sillabe di "Empi spe-" poi torna a cantare tenendo di più ogni semiminima. A 0.37 sulla sillaba "-la" di spegnetela, con tendenza ad arrotondare vero O, di nuovo porta la voce legando la fine della parola con la nuova frase "o ch'io fra poco".
Dopo l'ascesa sulle parole "col sangue vostro" un poco ritenuto per consentire la comodità del cantante, ecco il tipico richiamo al diaframma gigliano, quasi aggiungendo una brevissima "e" nascosta prima di "la spegnerò". Cambio di colore espressivo di carattere più paternamente patetico, a 0.47, "era già figlio prima d'amarti" (sempre con piccolo portamento tra la "o" di "figlio" e "prima") raccogliendo di più i suoni vocalici, la e rotonda di "era", e sempre verso O la "a" finale di "era".
A 0.53 nel riattacco di "non sò frenarmi", ecco quella sua specie di 'singhiozzo' che permette però di emettere direttamente il sol acuto sempre con sicurezza (senza preparazione da una nota precedente) come in questo caso. Di nuovo richiamo al diaframma con aggiunta di brevissima "e", prima di "Madre infelice", a 1.01, ed anche a 1.03, prima di "corro a salvarti" (il motivo musicale di queste ultime parole, specie nelle "a" viene affrontato in modo baldo con apertura della vocale chiara quasi nasale, ricordando la maniera spagnola di Lazaro). A 1.04 salita di slancio sulle note sol - do acuto su "o te-" di "o teco almeno" in voce piena "di testa" con do acuto tenuto coronato sino a 1.08 e discesa di semitono, anticipando il si naturale acuto (della sillaba "-co") già sulla "e" della sillaba precedente "te-".
Breve tenuto anche sul si naturale acuto, ove fonde la "o" finale di "teco" con la seguente "a" di "almeno", e ridiscesa della linea vocale a 1.10 con ripresa del tempo da parte dell'orchestra, poi ancora una volta il richiamo al diaframma prima di "corro a morir". Chiude a 1.18 con "o te-" di "o teco" ma sulle note sol - la acuto, evitando il salto prescritto, e tiene il successivo sol acuto coronato sulla sillaba "mo-" della parola "morir" con squillante piena voce a 1.22 (notare che cambia in A a 1.26), ridiscendendo con portamento (in questo passaggio, ritornando alla O a 1.27) verso il do inferiore sulla sillaba "-rir" della medesima parola. Dopo il momento orchestrale, e i due "all'armi", l'ultimo "all'armi" viene preso sempre di slancio con do acuto a piena voce un po' stentoreo e cambio di sillaba da "ar-" a "-mi" a 2.10, ma rispetto a Volpi chiudendo subito l'ultimo do acuto sulla "i", lasciando concludere con gli accordi finali alla sola orchestra.
1 c - Di quella pira (anno reg. : 1930)



La versione incisa da Pertile è più crudemente "maschia", fin dall'inizio, discostandosi così, diciamo, più nettamente dal bel canto dell'Ottocento, ed è cantata abbassata di un semitono (anche se bisogna tener presente che all'epoca di Verdi il diapason era leggermente più basso).
Fin dall'attacco a 0.02 la voce è un po' al limite della forza consentita dalla voce nell'area medio-acuta in cui viene esposto il tema, e risulta anche assai vibrata, rispetto agli altri che la tengono più normalmente fissa. Comunque qui si possono sentire tutte le semicrome delle quartine staccate nella legatura come prescritto in partitura.

Anche le chiusure dei vari incisi (ogni due battute) risultano stentoree. Tuttavia, si rileva una bella "mezza voce" in legato a 0.27 in corrispondenza dell'indicazione verdiana di "Piano" alle parole "Era già figlio". Ritorna alla voce piena a 0.39 nel riattacco di "Madre infelice" evidenziando questo inciso calcando le consonanti M ed F. Al secondo 0.46 sale d'impeto dal sol al do acuto (in realtà dal fa diesis al si naturale acuti, poiché la versione è abbassata) su "O te-" con una tecnica tipica di molti tenori, e anche molto spontanea e comoda per questo registro vocale, che si potrebbe descrivere come un "o tei" vale a dire assottigliando la "e" quasi ad I molto immascherata "di testa". Al minuto 1.03 riattacca direttamente il la acuto (in realtà un sol diesis) sulla sillaba "te-" di "teco", tagliando la nota inferiore precedente (ma dobbiamo dire che viene fatto abbastanza legittimamente, perché eseguita in un momento quasi di cadenza su corona e con l'orchestra che attende la ridiscesa del tenore sulla tonica).
La ridiscesa tenorile dalla dominante alla tonica avviene anche per lui quasi cambiando dalla "o" tenuta a suono vocalico di A con discesa eseguita con portamento molto enfatizzato. Dopo il momento orchestrale, chiude con i due "all'armi" e poi il terzo ed ultimo "all'armi" a 1.50 portando la voce all'acuto subito cambiando la sillaba da "ar-" a "-mi" a 1.52 tenendo la nota finale (aggiunta di tradizione, poiché Verdi aveva scritto in partitura un sol e non un do acuto) sino a 1.56, per circa cinque secondi, anche lui modificando la "i" quasi ad una E, per esigenza di sostegno di una nota alta e a piena voce come questa (in realtà un si naturale in questa incisione di Pertile), chiudendo a 1.57 e lasciando agli accordi finali dell'orchestra la conclusione di questa cabaletta.
1 d - Di quella pira (anno reg. : 1929)



Nell'incisione di Lazaro, ancora una volta il tenore spagnolo pur essendo stato cantante prediletto da Mascagni e tenore spesso interprete di opere veriste, mantiene la voce contenuta, senza sbracare, sorprendentemente restando, nel suo Verdi, nella scia del canto ottocentesco. Rispetto alla prima registrazione di Lazaro di questa celebre Cabaletta incisa a 108 di metronomo alla semiminima (nell'incisione acustica del 1916), qui (nell'incisione elettrica del 1929) il tempo è leggermente più rapido aggirandosi attorno a 116 di metronomo.

Nell'attacco della Cabaletta, Lazaro canta in punta e non ingrossando, certo sempre con quel suo caratteristico colore spagnolo delle vocali. Interessante come scelga di "portare" la voce, collegando il re con il fa naturale dell'area di passaggio, tra la sillaba "-stro" di "vostro" e la parola seguente "la", unendo così l'inciso "col sangue vostro" all'inciso "la spegnerò".
Più raccolto, legato e piano la semifrase "Era già figlio prima d'amarti", poi leggermente e dolcemente scivolato un poco da sotto il sol acuto di "non può frenarmi". Ed arriviamo alla caratteristica emissione del tenore "espada" sul sol - do acuto con il do acuto emesso a 0.58 senza portamento, bensì preso in modo diretto, come una lama su una "e" stretta e molto immascherata, tenendo l'acuto per quasi cinque secondi sino a 1.02, quando anticipa, come poi farà anche Gigli, il si naturale sulla vocale "e" di "teco" cambiando nella sillaba "-co" a 1.03. I successivi sol acuti sulla vocale "e" di "teco", compreso il terzultimo a 1.13 è sempre realizzato con quel caratteristico "ei" tenorile, usato anche da Pertile. In cadenza, sale sulla parola "morir" tra le note sol e do acuto "portando" la voce sulla "o" di "morir" alla quale però dà spazio andando quasi al suono vocalico di A, tra 1.17 e 1.19, arrivando così comodamente al do acuto, emesso sempre "di testa" e a piena voce, su vocale O a 1.18 e cambiando poi con la sillaba "-rir" di "morir" a 1.19. Dopo il momento orchestrale, taglia i tre "all'armi" e termina a 1.51 con una sola ascesa sol - do acuto ma sulla parola "morir" tenendo l'acuto sulla "i" sino a 1.56, con conclusiva breve chiusura accordale dell'orchestra.
4. ASCOLTO DI "E LUCEVAN LE STELLE" aria di Cavaradossi dall'opera "Tosca", nelle registrazioni di Volpi, Gigli, Pertile e Lazaro



1 a - E lucevan le stelle (anno reg. : 1928)



Nel quarto ed ultimo ascolto scelto, siamo di fronte ad una delle arie più difficili, non tanto per la scrittura vocale bensì sotto l'aspetto interpretativo, che necessita di essere resa in modo scenicamente teatrale già a partire dall'uso della voce, e qui ogni interprete, si può dire, sceglie di personalizzarla in modo diverso.
Questa incisione di un ancor giovane Volpi mostra come anche in un repertorio a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, il tenore di Lanuvio non abbandoni mai la vocalità e lo stile del cantore romantico, coniugando emissione e stile del bel canto con un'interpretazione accorata ma senza eccessi teatrali (e certamente mai cadendo nell'effetto verista). La sua è una resa che non perde mai il lato poetico tenorile, anche perché se qui il personaggio tenorile non è un poeta come ad es. nella Bohème, è pur sempre l'amante di Tosca, una cantante lirica, vale a dire un'artista. Non dovrebbe mai diventare un canto volgare, almeno Volpi qui ma anche nel resto della sua arte che sia nel Barbiere di Siviglia o nell'Otello è sempre un signore, e un uomo di cultura, e si sente.
Il suo canto è sempre intelligente e mira al raggiungimento dell'ideale. Per lui, per Volpi, non basta cantare, bisogna centrare ogni diverso personaggio, ogni ruolo è differente e, nella sua estetica artistica, un particolare ruolo operistico va interpretato solo dopo attenta riflessione e penetrazione del personaggio e della vicenda.
Qui attacca sul fa diesis centrale "E lucevan le stelle" a mezza voce, al secondo 0.21, dicendo "lucean" e soffermandosi sulla parola "stelle" quasi sfumandola con raffinatezza, in lieve diminuendo.


Continua così in modo morbidamente palpitante e sempre un poco controllato, raddolcendo la salita di tono alle parole "dell'orto" a 0.38. Sottolinea poi in modo soffice "pa" di "passo", "ra" di "sfiorava", "re" di "rena" con le sue particolari e belle "a" all'uopo schiarite (come in queso caso) di colore. E accenta in modo sempre recitato la sillaba "gran" di "fragrante", ma senza eccedere in modo esagerato. A 1.03, invece le "a" di "cadea" e di "fra le braccia" vengono più raccolte leggermente verso il suono vocalico di O. A 1.16 tiene il fa diesis del passaggio su "-ci,o" di "o dolci baci, o", ma schiarendo la "o" sul fa diesis verso il suono vocalico di A in una carezzevole mezza voce. Tra 1.18 e 1.19 vocalizza 'portando' la voce un tono sotto al mi inferiore e tra 1.22 e 1.23 esegue un lievissimo portamento discendente sulla "e" conclusiva di "languide" e una piccola cesura , riprendendo la linea vocale a 1.23 sulla parola "carezze".

Da notare anche come canti la "e" aperta quasi verso A sul sol centrale sulla sillaba "men" di "fremente" a 1.28. Segue un bellissimo pianissimo sul la acuto a 1.36 sulla sillaba "scio" della parola "disciogliea" tenuto sino a 1.40, quando cambia nella sillaba "glie" e a 1.41 nella vocale conclusiva di "disciogliea" e su questa "a" a 1.43 discende con piccolo portamento e cesura, per riprendere con "dai veli" a 1.44, il tutto continuando questo momento dell'aria con la sua mezza voce, dando una pennellata di dolce commozione accorata al personaggio. A questo punto, da 1.49 in poi passa alla piena voce, ma sempre mantenendo il suono raccolto e legando, e "coprendo" mantenendo la "a" verso la O sul sol acuto di "fuggita" a 2.02, al fine di poter effettuare un perfetta saldatura nel passaggio tra re e sol superiore, e timbrando la "a" con una tinta di O anche sul re della sillaba "ra" della parola "disperato".
Al minuto 2.25, salendo al fa diesis nota di saldatura dell'area di passaggio, tiene coronata la nota fino a 2.28 sulla "o" della parola "amato", emessa in modo squillantemente tenorile dando un po' di apertura alla vocale come fosse una A. Ed anche a 2.30 e a 2.29 le "a" di "vita" vengono raccolte verso O. Al minuto 2.36 fa una piccola cesura e un moderato sempre teatrale colpo di glottide nel riprendere l'ultimo "la vita".
In ogni caso, anche se nell'ultimo minuto di questa incisione, Lauri-Volpi muti in piena voce, non è mai sguaiato né verista e porta a termine la scena di Cavaradossi senza volgarità, da cavaliere del bel canto ottocentesco.
1 b - E lucevan le stelle (anno reg. : 1950, dal vivo - bis)



L'interpretazione gigliana che abbiamo scelto è molto particolare, si tratta di un bis di un concerto di Gigli dato a Buenos Aires nel 1950. Premettendo che si deve tener conto del fatto che questa fu un'aria molte volte eseguita in concerto da Gigli e resa presumibilmente in modo diverso, di volta in volta, a seconda della situazione, dello stato d'animo del cantante, del tipo di pubblico e così via, e tenendo conto che il ruolo completo di Cavaradossi venne da lui interpretato in teatro ben 195 volte nella sua carriera, si deve considerare poi anche il fatto che l'aria di Cavaradossi in quel concerto l'aveva già eseguita come da programma e che qui si tratta di un bis nel quale la "re-interpreta" nel vero senso della parola.

In ogni modo, prima di vedere assieme cosa scelga di fare in questo bis che rende in modo davvero unico e straordinario nel suo genere, sarà utile tener presente l'impostazione base che egli dava per quanto riguarda l'interpretazione del personaggio in specifico in questa scena dell'opera pucciniana. Teniamo presenti le stesse parole gigliane in merito, tratte dal cap. 9 “Il cantante come esecutore e come creatore" del libro: Beniamino Gigli - "Confidenze", Istituto per l’Enciclopedia De Carlo, 1942 - Intervista a cura di Italo Toscani, distribuita in diciotto confidenze :

(...) <<E Cavaradossi, il bravo, innamorato, patriottico ed eroico Cavaradossi, come si fa a non indagarne la febbrile ansietà e a non sentirne lo spasimo accorato e fremente di fronte all'amore e alla morte? Nessuno, nè il compositore, nè il librettista, e nemmeno il drammaturgo originale, ci hanno detto se egli, volteriano ed incredulo com'è si lasci davvero convincere dalla illusione in cui la povera Tosca crede di aver raggiunto la duplice e definitiva salvezza. Eppure la distinzione è fondamentale nell'indagine e nei suoi risultati a seconda che si accetti per buona l'adesione dello sfortunato Cavaradossi alle parole della sua donna, o si ritenga che egli, appunto per la sua esperienza e per la sua convinzione nella trista perfidia di Scarpia, non creda minimamente alla promessa onde il malvagio ha tentato fino all'ultimo le sue vittime.
Io, per parte mia, aderisco senz'altro alla seconda ipotesi, e appunto per questo reputo che bisogna dare al famoso grido "Io muoio disperato" il sussulto di una disperazione assoluta e tremenda che lo stesso ricordo degli attimi di gioia e di dolcezza, ormai fuggiti per sempre, rendono ancora più cupa e più tragica. Niente, nessuna illusione, per l'uomo che guarda in faccia la fine di ogni speranza e che, tutt'al più, sorride pietosamente perchè la sua innamorata non si accorga della tragedia che si avvicina.
'Poichè tu vuoi che io mi illuda con te, eccoti contenta, povera donna!... Ma io per mio conto ho dato l'addio alla vita e m'è rimasto sulle labbra e nel cuore il tremendo sapore del nulla leopardiano...'>>

Beniamino Gigli è Cavaradossi, New York 1929

Con questo punto di vista di base da tenere a mente, andando all'esecuzione gigliana, in questo bis storico Gigli, a ben 60 anni d'età, rispetto ad altre registrazioni precedenti e anche all'esecuzione come da programma appena data in quel concerto, decide di ripetere l'aria in un modo del tutto diverso, sia vocalmente che di conseguenza anche interpretativamente. Ed invece di cantarla con una classica mezza voce per poi passare alla piena voce, qui attacca a 0.18 con il suo tipico ed unico colore di voce carezzevole in piano, creando un'atmosfera trasognata mantenuta per parecchio tempo,  sino a 1.56 alle parole "l'ora è fuggita".
Interessante notare come, salendo anche minimamente la linea vocale, egli continui a mantenersi in un colore morbido e in una dinamica di estremo piano, quasi pianissimo, con il suo caratteristico "misto" sia a 0.34 alle parole "dell'orto" (parola "orto" resa scivolando leggermente e dolcemente di tono, e per realizzare meglio il legato dice quasi una sola "l"), che nell'ascesa a 1.10 sulle parole "o dolci baci, o languide carezze" (si faccia attenzione a come aggiunga un portamento di voce su "o" di "o languide" a 1.16 tra fa diesis e mi, ed anche a 1.18 sulla "e" di "languide", prima della successiva parola "carezze", tra do diesis e il fa diesis inferiore, e nello stesso modo pure a 1.23 sulla sillaba "fre" di "fremente"), ed anche incredibilmente nella successiva salita della voce a 1.26 "le belle forme disciogliea dai veli". Da notare in particolare che eccezionale effetto crei a 1.32 sul la acuto preso piano sulla sillaba "scio" della parola "disciogliea" che addirittura diminuisce ulteriormente al pianissimo in soli due secondi, da 1.32 a 1.34, tenendo la nota in questo modo particolarissimo sino a 1.36 (complessivamente per circa cinque secondi). La nota è talmente libera che il suono vocale sulla "o" appare quasi essere quello di una A, anche per le necessità d'apertura mandibolari che si creano salendo nella zona acuta della voce umana.
Anche tra 1.36 e 1.37 scende da lì con portamento, e porta la voce pure nella seguente "a" conclusiva della parola "disciogliea", con breve presa di fiato prima di continuare  con "dai veli", così come sulla parola "mio" a 1.52.
Non c'è il rischio di monotonia, come si potrebbe pensare di primo acchito, perché mantenendosi in questo piano per quasi tutta l'aria, il cantante recanatese ha quella capacità poetica di porgere la parola sottolineando certe sillabe nel fraseggiare, quali ad es. "za" (con zeta pronunciata dolcemente morbida) di "olezzava", "te" di "terra" e poi "ra" di "sfiorava" e "re" di "rena" (e accentando quasi in stile spagnolo la sillaba "gran" di "fragrante" a 0.52).
Ed ecco che a 1.56 passa alla piena voce (dopo oltre un minuto e mezzo condotto in piano), alle parole "L'ora è fuggita... e muoio disperato! E non ho amato mai tanto la vita!...", facendo salire improvvisamente ad ebollizione la tensione della scena. Dopo l'ora è fuggita nella quale raccogliendo il suono vocalico a 1.59 tinge sempre un po' con O la sillaba "ta" di "fuggita", si nota come da 2.01 riesca ad aprire di più i suoni, senza mai sfocare però l'emissione di questi, dando una fortissima impennata verista al finale del brano. A 2.17, il la acuto sulla sillaba "to" di "amato" da lui tenuto sino a 2.19 acquista i connotati della A, per le medesime ragioni sopra esposte relative alla zona acuta della voce, quando a 2.20 cambia nettamente in un 'ah', chiudendo il suono con aspirazione. Conclude con il "mai tanto la vita" (preceduto da "e", con effetto verista simile a quelli di una Cavalleria di Mascagni o dei Pagliacci di Leoncavallo)  e sottolinenando in modo tragico la parola "vita" dell'ultimo intervento alle parole "tanto la vita", (dopo aver reso con lievissimo portamento discendente la chiusura della parola tanto, simboleggiando lo spirare l'ultimo alito di vita dell'essere umano, a 2.19) sempre senza dimenticarsi di raccogliere la vocale "a" mantenuta proiettata avanti con un tocco di O.
1 c - E lucevan le stelle (anno reg. : 1932)



Nell'incisione di Pertile, l'aria viene attaccata a 0.19 con una classica mezza voce di estrema morbidezza. A 0.50 anche lui accenta molto la sillaba "gran" della parola "fragrante" e, a 1.04, ancor più enfaticamente marca le sillabe con la consonante "r" alle parole "fra le braccia". Sale poi su "o dolci baci", soffermandosi un poco ad ogni vocale quasi sfumando ogni nota, a 1.15 tiene il fa diesis del passaggio sulla vocale "i" cambiando sulla stessa nota nella "o" successiva solo a 1.17. A 1.21 morbido portamento discendente sulla "e" di "languide", e da 1.29 sale con voce più sfogata. Poi da 1.35 a 1.38 ottiene una bella riduzione di voce, passando dalla voce piena alla mezza voce. Tra 1.38 e 1.39 esegue una discesa con gentile portamento di voce, facendo precedere con una piccolissima cesura il successivo "dai veli" a 1.40. Ascende in "l'ora è fuggita", "coprendo" molto bene il sol acuto sulla "a" conclusiva della parola "fuggita" che tronca nettamente tra 1.59 e 2.00, così come fa anche calcando la chiusa della "o" conclusiva della parola "disperato" tra 2.08 e 2.09, procedendo così in modo più verista. A 2.19 termina salendo al fa diesis del passaggio sulle parole "e non ho amato" con pienezza di voce, discendendo nella linea vocale con i due ultimi interventi "mai tanto la vita" e "tanto la vita" che vengono interpretati qui con marcato accento verista (simile a quello offerto dai tenori nei Pagliacci di Leoncavallo), aggiungendo poi a 2.40, a mo' d'effetto, una sorta di risata-singulto in cui il personaggio di Cavaradossi si piega affranto su se stesso nel dolore.
1 d - E lucevan le stelle (anno reg. : 1916)



Nell'ultimo ascolto, Lazaro attacca a 0.20 a mezza voce, sottolineando, in modo più recitato che cantato, con accenti enfatici le "e" di "lucevan" e di "stelle" e nel successivo inciso scegliendo d'eseguire una E molto aperta marcando così la parola "terra". Al secondo 0.34 rende con una leggera connotazione di pianto la sillaba "-scio" della parola "uscio", così come fa ad 1.02 alle parole "fra le braccia". Comincia a cantare, ma sempre con voce morbida e raccolta, a 1.08 nella salita di "o dolci baci, o", fermandosi in tenuto quasi ad ogni vocale (qui si percepisce dalla registrazione quel caratteristico suo leggero vibratino stretto della voce). Arrivando alla nota di passaggio a 1.12, tiene il fa diesis sulla vocale "o" con leggero diminuendo sino a 1.14 ed elegante portamento discendente sulla "e" di "languide". A 1.21 marca leggermente la "m" di "mentr'io" con piccolo colpo di glottide. Interessante anche come prende il la acuto sulla sillaba "scio" della parola "disciogliea" a 1.31 in modo spavaldo con emissione "di testa", passando poi da 1.33 a 1. riducendo il sol acuto sulla vocale "a" conclusiva di "disciogliea" da voce piena filando ad un pianissimo, con piccolo portamento tra sol acuto e mi inferiore tra 1.36 e 1.37. A 1.58 sulla "a" di "sfuggita" ed "a" e "o" di "disperato" a 2.06 rimane sempre quel connotato vocalico di velata nasalità di Lazaro. A 2.22 bellissimo lo squillo tenorile ottenuto sul la acuto, sulla sillaba "-to" della parola "amato", nota tenuta sino a 2.26 per poi discendere di tono a 2.27 "portando" la voce sulla vocale "o". Conclude con l'effetto di un singhiozzo teatrale a 2.37, tra "tanto" e "la vita" e marcando in modo teatrale, con l'effetto di doppia "v", la parola finale "vita".

Hipólito Lázaro nel ruolo di Cavaradossi