martedì 14 agosto 2018

Audio-Video didattici sul canto e la tecnica vocale di Giacomo Lauri-Volpi

Una lezione di canto con Giacomo Lauri-Volpi (1933)


Lauri Volpi singing a high B natural on "U" vowel ("l'Uragano") - "Esultate", from Verdi's "Otello" (1941)


Breve lezione di canto di Giacomo Lauri-Volpi sulla vocale italiana I (1962)


Giacomo Lauri-Volpi sulla respirazione diaframmatico-costale e le due casse armoniche (1976)


Giacomo Lauri-Volpi parla del suo maestro Cotogni e del tenere leggeri i centri come tenori (1974)


Lauri Volpi mentre insegna al Conservatorio Superiore di Musica di Valencia (1978)


Alfredo Kraus su Lauri-Volpi e la respirazione intercostale-diaframmatica 


lunedì 13 agosto 2018

Acuti liberi e risoluzione del Si naturale, su vocale U, nell'Esultate di Verdi



Nella registrazione del grande tenore di Lanuvio, Lauri-Volpi affronta e risolve magistralmente l'esecuzione del si naturale acuto (nel valore ritmico della durata di un'acciaccatura) sulla vocale U della parola "uragano" - nell' "Esultate" dell'Atto I dell' "Otello" di Verdi :


fare bene attenzione al secondo 0.36... dell'incisione, come egli adatti la vocale U della parola "uragano" presente nel testo del libretto, dando maggior spazio, come se fosse una O, per le esigenze dell'emissione della voce (in zona acuta, che non segue le medesime regole della zona centrale cosiddetta "del parlato").

Questo metodo è perfettamente in linea con ciò che Volpi ha esposto nell'intervista del '62, condotta da Saraceni. Infatti, alla domanda dell'intervistatore : "- Scusi Commendatore, tutti hanno sempre notato, noi stessi, è vero, che per Lei le vocali qualunque sia la nota che Ella deve emettere, sia sparata sia filata, per Lei le vocali non hanno importanza, Lei le affronta tutte e appoggia la nota con una limpidezza, una precisione, mentre invece abbiamo sentito tanti cantanti che in certi punti, per esempio nel Faust "a me rivela la fanciulla" quando tutti fanno "la fanciulla a me rivela" perché gli è più facile emettere la vocale "E" anziché la vocale "U" sul do acuto. Altri casi per esempio molti non riescono a fare bene il finale dell'Amarilli perché le "I" [sul fa diesis, il passaggio] gli danno fastidio.
E mi dica un po', quegli "I" che sono tremendi come fa a farli uscire fuori così limpidi?" 
ecco quale fu la spiegazione della risoluzione da adottare nella zona di passaggio e poi negli acuti secondo Lauri-Volpi :
 
(...) bisogna che la gola sia indipendente dall'articolazione (...) Tutte bisogna dirle le vocali, tutte le parole; se uno domina la gola, vale a dire che la colonna sonora è sempre quella intatta, i raggi sonori si proiettano sulla cassa cranica e allora sono indipendenti dalla articolazione. La vocale "A", diceva Rossini, è la regina delle vocali. I francesi non hanno un' "A" sonora come la nostra, nessuna lingua; la vocale A italiana ben messa è di per sé stessa una musica, diceva Rossini. (...) se Lei dice la "I" pensando alla "A" Lei vedrà che la "I" viene ampia e sonora, bisogna pensare alla "A" nel dire la "I", perché la "A" tiene tutto il condotto aperto.

(da una intervista di Sergio Saraceni, Roma 1962)


Da tener presente anche questa successiva testimonianza volpiana :

(...) Del Monaco ha sempre serbato un ricordo deferente verso l'anziano collega, al quale, telefonando, una mattina, dall'Hotel Plaza di Roma, volle svelare un suo segreto: «Vuol sapere, confessò, perchè mi decisi a studiare l' "Otello"? Già mi ero deciso a rinunciare alla carriera, dopo una disavventura nella "Gioconda" al Liceo di Barcellona, quando ebbi la ventura di ascoltare il suo disco dell' "Esultate". Notai il modo di emettere quel terribile "fa diesis" su cui poggia l' "a" della parola "uragano", che non si sa se vada "aperta" o "chiusa". Mi misi ad imitare il suo suono in quella nota e a forza di studio, riuscii ad allineare tutta la gamma sul quel suono con lo stesso colore. Così mi fabbricai una voce per l' "Otello"; l'opera della mia fortuna».
(...) Quanti hanno sentito quella mia nota! Eppure non ci hanno fatto caso. Per Del Monaco fu la salvezza. (...) Caso del tutto diverso, quello di Corelli, al quale rivelai, per giornate intere, il perchè di certa fonazione, a differenza di un'altra, con immediata dimostrazione vocale sulle più varie romanze del più famoso repertorio. Nella mia "Terza età", così la chiamano i gerontologi, mi sento orgoglioso di aver giovato ai due più quotati e scattanti tenori dell'ultima generazione lirica. (...) Quante voci si sarebbero salvate negli ultimi anni, se i giovani artisti avessero, come Del Monaco e Corelli, studiato sui vecchi: interrogato, imitato, amato i vecchi?

(da: G. Lauri-Volpi - "Il 'nipotino' di Otello" - Musica e Dischi, novembre 1968)

La concezione tecnica volpiana, in questo, risulta simile a quella di Beniamino Gigli (ebbero infatti, a Santa Cecilia in Roma, gli stessi maestri: Antonio Cotogni ed Enrico Rosati) come si può notare per esempio nell'incisione di Gigli del 1923 dell'aria "O paradiso", dall'Africana di Meyerbeer, nella quale il tenore recanatese, per emettere il si bemolle acuto, segue nella pratica la medesima idea tecnico-vocale esposta diversi anni dopo nella sua "Lezione introduttiva" tenuta a Londra nel dicembre 1946 :

"The vowels EE and EH, OH and OO, are narrow sounds, in degree, on the low and lower medium notes. But once we are on the high pitches they must be given ample space for development, just as if they were of the same "aperture" as the AH vowel."

(Le vocali "I" ed "E", "O" e "U", sono suoni stretti, nel grado, su note medie basse e più basse. Ma una volta che noi siamo su altezze di tono acute dev'essere dato loro ampio spazio per svilupparsi, proprio come se fossero della stessa "apertura" della vocale A.)

Anche nell'estratto video che riprende l'esecuzione di Gigli allo Sportpalast di Berlino nel 1932, egli sposta il "m'ap-" di "m'appartieni" sul successivo sol bemolle, preferendo, piuttosto che cambiar sillaba sull'acuto, portare la voce legando il sol bemolle, nota di passaggio, o meglio di saldatura (come la chiamava Lauri-Volpi), sulla vocale "u" di "Tu", al si bemolle acuto, sempre tenendo la vocale medesima che viene però aperta di spazio per azione del cadere naturale della mandibola! 


In tal modo si raggiunge una posizione vocale comoda per la voce umana su quell'altezza acuta di suono. In questo, Gigli fu perfettamente in linea con quello che disse vari anni dopo a Michelangelo Verso quando questi gli chiese : "Commendatore, ma come fa gli acuti?" ed egli rispose: "Il colore dev'essere come uno strumento... e non pensare alle vocali, pensa a un suono, la voce dev'essere un suono".


Le 5 voci dei cantori raffigurati da Luca della Robbia, nella descrizione di D'Annunzio



Conoscere il mistero della voce umana ed AVERE "ORECCHI PER IL MIRACOLO DELLA VOCE" :

5 aprile 1971
Maria, ricevo una lettera interessantissima del delicato poeta bolognese, Pietro Guidobono, su una materia a te cara: quella canora, nella quale fosti maestra. Egli mi ricorda che D'Annunzio, nel 1928, a Verona, durante l'intervallo di una mia recita di "Rigoletto", venne a conoscermi sulla ribalta. Tu, convalescente dell'operazione, subita a Buenos Aires, eri rimasta a Valencia. D'Annunzio mi parlò con straordinaria competenza sul mistero della voce umana, parlata e cantata, ed accennò ai rapporti avuti col Pontefice poeta, Gioacchino Pecci (Leone XIII), di cui menzionò la voce "che incredibilmente gli si arrotondava sullo appuntato naso". Su questo particolare io feci un commento in "A viso aperto", evocando la voce stentorea del novantenne Capo della Chiesa; voce, che contrastava con il suo corpo mingherlino e minuto e con la sua avanzata età. Egli aveva saputo liberarla dall'involucro carnale, giovandosi degli armonici, risonanti nella cassa cranica, non dissimile dal legno di uno Stradivario per capacità di trasmissione delle onde sonore. Ne sappiamo qualcosa di "arrotondamenti sul naso", Maria, altrimenti come avrei potuto reggere la colonna sonora sugl'incredibili vertici del "G. Tell"? I grandi poeti sanno intuire le occulte realtà della natura e dello spirito, che sfuggono ai profani, ligi alle mode e proni ai miti e agl'idoli.
Leone XIII cantava, nelle solenni liturgie, con voce che non implorava il soccorso di microfoni e amplificatori per farsi sentire dentro l'immensa Basilica di S. Pietro. Pietro Guidobono, alludendo a questo commento di 20 anni addietro, m'invia la copia di 3 pagine, tratte da "La Violante dalla bella voce" (libro di D'Annunzio, recentemente apparso in Italia), che si ispirano a un coro di cinque voci di cui Luca della Robbia riproduce i volti nella Chiesa di S. Miniato al Monte. Quale stupendo intenditore di voci e di anime canore, questo nostro glorioso poeta, sì indegnamente maltrattato dalla critica moderna, tanto irriverente quanto ingiusta e ignorante. Egli è capace di esporre una analisi psicologica e fisiologica della voce, come nessun musicista, direttore d'orchestra, maestro di canto ha saputo mai concepire ed esprimere. Egli si domanda: "Donde cavò Luca della Robbia lo stampo di questi cantori che mi inebriano?... Certo intese ad osservare quella maschera viva che il canto crea sul volto di chi canta, la quale ha una misteriosa rispondenza col timbro... Nessuno, degli artefici d'arti mute, rappresentò mai la voce così pienamente... Qui distinguo ciascuno delle 5 voci: il più robusto dei 5 canta di petto e gli si gonfiano le vene del collo; il giovinetto di destra canta nel naso. Canta in falsetto quel di sinistra... Il secondo fanciullo ha una pura voce argentina che gli schiara tutto il volto, e più degli altri s'abbandona all'ebbrezza del canto... Presso alla sua gota è la palma aperta di colui che a bocca chiusa conduce il Coro".
Come fa D'Annunzio ad esaminare e distinguere le inudibili voci di cantori le cui figure sono fissate nella muta materia plastica? Intuizione di poeta. Sì, ma come riesce a percepire il metodo di canto nella voce del cantore che canta "di petto", del cantore che canta "nel naso"; dell'altro, che canta "in falsetto"; del quarto, che ha "pura voce argentina"; e dell'ultimo che canta "a bocca chiusa"? Solamente un tecnico può immaginare la fonetica usata da un cantore che non canta, giudicando unicamente la emissione sonora dall'atteggiamento e dall'espressione del viso. Non è sorprendente questa forza d'intuizione del Poeta delle Laudi? Ma c'è di più. D'Annunzio deplora che "gli uomini non abbiano più orecchi per il miracolo della voce. Fatti ottusi dall'abitudine della disattenzione, possono udire una voce nuova senza riscuotersi... Non v'è in tutta la natura suono più patetico né più rivelatore né tanto inimitabile della voce umana... Non possiamo conoscere la nostra propria, come non conosciamo la nostra anima. Certo ella risuona nelle ossa del nostro capo diversa da quella che le orecchie altrui odono. Non una parola, ma il suono d'una parola determina i grandi eventi, reali e ideali. A chi appartiene il segreto di modularla? ... Non quel che dirò mi varrà, ma il modo, ma l'accento ... La mia verità è affidata al mio grido, io so che nella mia profondità è una voce inoppugnabile, la voce inaudita, quella a cui non resiste il più spietato petto e forse neppure la porta della Morte... io potrò falsarla, né condurla, né rattenerla... Or di che è fatta la magia di certe voci che sembrano svegliare in noi quasi una promessa sposa del nostro desiderio più celato? ... Parlo delle voci fuggitive, estranee, che udimmo per un istante, e non dimenticheremo più".
Che mai avrebbe immaginato D'Annunzio, se avesse ascoltato la tua voce, Maria, e avesse osservato la tua maschera viva che aveva così misteriosa rispondenza con il timbro della tua voce melodiosa: voce alata ed esperta di tutti i segreti del canto puro? Purtroppo oggi dobbiamo confermare che gli uomini "non hanno più orecchi per il miracolo della voce". A te apparteneva il segreto di modularla e di rivelarla a me e agli altri; in te il modo e l'accento della parola scenica illuminavano il suono e diffondevano una suggestione dovuta all'azione del pensiero, trasfigurante la materia vocale in eterea armonia di vibrazioni.

(da: G. Lauri Volpi - "Parlando a Maria" [Ros] - Trevi Editore, Roma, 1971)

Creazione dei suoni vocalici, secondo Leonardo

 
 
(...) il suono è movimento e prodotto di movimento. Il movimento, applicato alla parola, si complica con i moti della lingua che si estende e restringe, ingrossa e accorcia, dilata e assottiglia nella pronuncia. "Provasi" – dice Leonardo – "come tutte le vocali sono pronunziate con la parte ultima del palato molle, il quale copre l'epiglottide, e tal pronunziazione viene dalla situazione delle labbra con le quali si dà il transito al vento che spira, che con seco porta il creato sòno della voce. Il quale sòno, ancor che le labbra sieno chiuse, spira per gli anari del naso, ma non sarà mai, per tale transito, dimostratore d'alcune d'esse lettere" (vocali) "e per tale esperienza si può con certezza concludere, non la trachea" (la laringe) "creare alcun suono di lettera, ma il suo ufizio sol s'astende alla creazione della predetta voce, e massime nel a, o, u."
Dunque il suono laringeo è la materia sonora, la quale acquista valore verbale soltanto per mezzo della lingua, della bocca e delle labbra.

(da: Lauri-Volpi - "Misteri della voce umana", 1957)

Il valore della fusione dei registri attraverso la "saldatura" della nota di passaggio


<<Ogni voce ha un centro di gravità in una nota della sua gamma che corrisponde alla cosidetta nota di "passaggio" - di "nesso" - di "sutura" - di "coesione" - di "concordanza" e di "aderenza" fra registri - di "saldatura", senza la quale si sfila e gualcisce il tessuto vocale.>>

(da: G. Lauri-Volpi - "MISTERI DELLA VOCE UMANA", 1957)

La "voce in maschera" e i suoi vantaggiosi effetti salutari nel canto lirico



«La "mascherazione", con la conquista degli armonici nei seni frontali, non fa gravare la colonna d'aria sul petto e sull'addome, ma la proietta contro le cavità cervicali, facendo risparmiare preziosa energia vocale, difficilmente recuperabile se non con il metodo razionale, integrato dal metodo intuitivo.»

(in: Giacomo Lauri Volpi - "VOCI PARALLELE", 3za ediz. 1977) 


LA VOCE DI TENORE DEVE ESSERE TENORILE, né "aperta" né "baritonale"



«Nel 1933, la forte e giovane voce di un tenore veneto cantava, all'Opéra Comique di Parigi, il "Werther" in perfetto francese, acclamato da quel pubblico espansivo e intelligente. Quella voce educata alla scuola francese della declamazione e della fonazione, si era, per così dire, specializzata nel repertorio abituale del teatro parigino. (...) Lugo stava per diventare il primo tenore di Francia. Ma ecco che i teatri italiani, perdurando l'assenza dei grandi tenori impegnati all'estero, lo chiamano a gran voce, battezzandolo "nuovo Caruso". E il "nuovo Caruso" viene in Italia per cantare, in una lingua a lui non più familiare, e così diversa dalla "coesiva" lingua francese, in un repertorio limitato a "Tosca", "Bohème" e "Fanciulla del West". Ma breve sarà l'ora del successo. Dopo pochi anni, la stella di Giuseppe Lugo tramonterà tra l'indifferenza del pubblico. (...)

Non v'è una altrettanto valida ragione per giustificare il disorientamento che sembra vada profilandosi nella voce del siciliano Di Stefano, che incominciò baldamente, con i "Pescatori di perle" all'Opera di Roma, a far parlare di sé. Cantava allora con naturalezza, semplicità, buon gusto e disciplina "Mi par d'udire ancora" nel tono originale e con uguaglianza di gamma. Alla distanza di poco più di un lustro, dedicatosi alla Tosca e alla Gioconda, ha cambiato tecnica; e l'abuso di suoni acuti, verticali tra faringe e polmoni, minaccerebbe un precoce dissolvimento, se la sensibilità e l'ingegno del simpatico cantore non facessero sperare in un provvido ritorno alla sua natura e al suo stile.
Purtroppo, il miraggio carusiano tenta ancora le giovani fantasie e incoraggia temerarie esperienze. Nessun tenore può sostituire la "Voce del secolo", per la semplice ragione che uno schietto tenore non può aspirare a divenire un cantore baritonale, sia pure eccelso, ma non, tipicamente, tenore. Per cantare alla Caruso, bisogne rinunciare alla "Lucia", alla "Favorita", ai "Puritani", alla "Sonnambula", al "Trovatore", a tutto il repertorio limpidamente e lucidamente tenorile, ed abbracciare l'opera verista, passionale, che logora cuore, voce e salute. Il tenore deve essere tenore, come baritono e basso debbono essere tali, quali le esigenze timbriche dell'opera impongono. Si lasci Caruso alla sua gloria solitaria - che sulle altre "com'aquila vola", considerandolo un caso irripetibile nell' "ornitologia" canora (1).»

(1) Le osservazioni sulla voce di Pippo risalgono al 1955, anno della prima edizione di quest'opera. Purtroppo la voce "aperta" di Di Stefano con l'abuso di note spalancate è scomparsa innanzi tempo: le previsioni dell'autore si sono avverate puntualmente.

(da: G.Lauri Volpi - "VOCI PARALLELE", 3za ediz. 1977)


LA RISONANZA DI "TESTA" secondo Lauri-Volpi

Lauri Volpi ad Ariccia, mentre esegue il duetto da I pescatori di perle con il baritono Guido Guarnera - 24 luglio 1965

 
La risonanza di "testa" non è soltanto un mezzo tecnico di liberazione, emancipazione del suono, trattenuto dal subalterno serrame corporeo; ma è luminosità di pensiero per acquisita collaborazione degli "armonici".
Queste verità lapalissiane suonano ostiche all'orecchio e alla mentalità materialista del mondo moderno, fattosi schiavo del più deteriore positivismo. Si vogliono suoni grossi, grassi, rumorosi, non dissimili da certi richiami fisiologici.
Si ripudiano i suoni sinceri, le voci schive di trucchi e di volgarità; l'arte schietta idonea ad esprimere le intuizioni della spinta e le emozioni del cuore in perfetta armonia.
Di questi concetti sono piene le mie modeste opere di cui i critici musicali dei giornali e della Radio-TV si giovano volentieri, e che gli studenti e i maestri di canto ignorano non meno volentieri.

(da: Incontri e scontri di Giacomo Lauri Volpi - "Cantare col cuore oppure con lo stomaco?" - Momento-Sera, 4 giugno 1965 e Musica e Dischi "Si canta col cuore o con lo stomaco?" - giugno 1965)
 
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Ecco un esempio concreto dell'incredibile e sempre vivo canto laurivolpiano tratto da quella serata estiva del '65 ad Ariccia, che "parla da solo" !!! 


La "mezza voce" verdiana di Lauri-Volpi

"La città di Busseto a Giacomo Lauri Volpi, il più verdiano dei tenori - 5 giugno 1976"
 
" (...) Il tenore dalla voce che scorre potente su una gamma inverosimile, il tenore dagli acuti mirabolanti, il tenore, insomma, che si trova a suo agio quando sia richiesto di note che superano la comune tessitura, e sono elettrizzanti per lo scoppio e il brillio del suono, non si vale più unicamente di questi mezzi, ma ha aggiunto un'altra corda alla sua lira e l'usa con giusto senso artistico. Lauri Volpi, ove occorra, smorza ora la voce, ne modera la potenza, ne gradua il colore. Ha trovato la 'mezza voce', una sua 'mezza voce', magnifica, non appannata, non di falsetto: la sua voce naturale dimezzata, appunto, ma con gli stessi caratteri fonici che le sono propri. Così certi recitativi di media espressione e le parti e le frasi liriche, le può colorire e le colorisce con più adeguatezza e con maggiore efficacia artistica, e non deve attendere la grossa sparata per conquistare il pubblico. Con questo non è da pensare che abbia evitato di salire sul suo cavallo di battaglia e che non abbia stilato il suo repertorio di acuti e sopracuti abbaglianti da mandare, come si diceva un tempo, in visibilio. Ancora una volta, dunque, egli è stato il centro dello spettacolo [Il Trovatore] (...) "

(Il Popolo d'Italia, 28 dicembre 1933)

"In tutta l'opera [Luisa Miller] si osservò come il colore della voce rispondesse allo spirito della musicalità verdiana, e com'essa si flettesse alla disciplina di tanta effusione, di tanta robustezza espressiva. Senza accennare ai primi quadri basterebbe aver colto l'entusiasmo incontenibile con cui fu accolta la celebre romanza, cantata con lievità di mezza voce e conclusa con ampio folgorio di note acute, e come animò con passionale ardore la scena finale dell'opera, nella quale la voce di Lauri Volpi ebbe momenti di commozione e di esaltazione drammatica, per intendere il significato delle acclamazioni al suo indirizzo. Serata, per merito suo, di grandi emozioni!"

(Il Messaggero, 27 febbraio 1938)

L'incisività dell'accento e la dizione, elementi strategici nella gestione del "registro" centrale "del parlato"

L'importanza fondamentale di "...supplire al volume inesistente delle regioni centrali e gravi, l'accento, la dizione che risparmia fiato e mantiene e sviluppa le articolazioni orali e proietta il suono nello spazio", nel consiglio di Lauri-Volpi :

Lauri Volpi, Caniglia e Silveri, diretti dal M° Santini, a cent'anni dalla prima, provano "Luisa Miller" che aprirà la Stagione del Teatro dell'Opera di Roma l'8 dicembre 1949
Diario di Lauri Volpi, 20 giugno 1949 :
« Siamo stati a colazione con Queena Mario. (...) Parla in italiano con accento esotico, ma sempre guidato da un pensiero netto. (...) E' stata di una sincerità sconcertante. M'aveva sentito l'ultima volta nel 1933. Quando si è trattato di andare al concerto, lei ha provato, l'altra sera, un serio imbarazzo. "Quest'uomo - si è detto - cantò tanti anni al Metropolitan con il solo registro acuto, e suppliva alle lacune del centro e del basso con un suo modo di cantare che nessuno capiva. Adesso, nella parabola discendente, dovrebbe aver perduto anche gli acuti. Quale doloroso spettacolo mi si presenterà questa sera? Come felicitare poi il collega? Dovrei mentire". Con questa spina nella mente, ella era andata al concerto. Ma dall'apprensione era passata alla sopresa, dalla sorpresa allo sbalordimento per la rivelazione di un mistero inaudito. Là sopra, su quella ribalta, cantava un essere pieno di vitalità, trasfusa in tutte le sonorità di una gamma omogenea, franca, tersa, dalle note più gravi alle acute. Che è mai successo? Che ha fatto questo uomo? Eppure il tempo non è un'opinione: gli anni passano per tutti, e trenta anni di attività ininterrotta bastano a sfaldare qualunque organo. La Queena non capiva. Voleva sapere in che consistesse il mistero di quella realtà indubbia, cui rendevano plauso non due, ma migliaia di mani. Il fenomeno esisteva ed era là palpitante, percepibile, per quanto assurdo. Dunque, l'assurdo esiste. L'americanina, che insegna da venti anni il canto, sembrava assolutamente una profana, estranea alla spiegazione del fenomeno: " Come ha fatto? Che cosa fa? Mi spieghi, 'please' ".
Nulla ho fatto che non sia logico. Incominciò trent'anni fa, l'avventura della vocina di contraltino, che non trovava risonanze sicure prima d'arrivare alle note di passaggio. Se i dirigenti del Metropolitan avessero avuto coscienza vocale, non avrebbero dovuto permetterle di uscire dal repertorio acuto: "Puritani", "Rigoletto", "Don Pasquale", "Favorita", "Sonnambula". Per contro, il solenne Gatti-Casazza e l'elegiaco Serafin si accordarono per fare di quella vocina una funambula. Oggi "Rigoletto", posdomani "Norma"; la settimana successiva "Barbiere" e dopo due giorni, il "Re di Lahore" o "Giovanni Gallurese". Qualunque altra voce si sarebbe smarrita. Io capii che all'astuzia doveva opporsi l'astuzia: supplire al volume inesistente delle regioni centrali e gravi, l'accento, la dizione che risparmia fiato e mantiene e sviluppa le articolazioni orali e proietta il suono nello spazio. L'espediente, suggerito dall'istinto di preservazione, salvò la situazione e conservò la spontaneità degli acuti, in attesa che l'organismo si maturasse e, con esso, la voce. Temporeggiando, mi servii del borioso Metropolitan come di un teatrino sperimentale di provincia con la rimunerazione dai mille ai millecinquecento dollari a recita. Fatto unico nella storia del teatro lirico. E intanto, tornavo in Europa, conquistando allori ed alte quotazioni con l'invulnerabile spontaneità vocale, la disinvoltura scenica, la chiarezza della parola e l'incisività dell'accento. Altrimenti, come avrei potuto emergere in un momento in cui trionfava tra tutte la intensa, calda voce di Caruso e intorno ad essa uno stuolo di voci eroiche, romantiche, cerebrali, passionali, classiche, in mezzo alle quali la mia - se non avesse avuto virtù non spregevoli - sarebbe passata come un'ombra, un sussurro? Allora cantavano Zenatello, robusta voce; Bassi, voce di scatto e squillo; Grassi, voce audace e incisiva; Pertile, saggio dicitore; Anselmi, languido ed elegante; Schipa, furbissimo stilizzatore; Paoli, fenomeno vocale; De Muro Bernardo, colonna di suono fiammeggiante; il mistico Gigli, voce elegiaca o turgida; il corretto Merli, ugola grassa; Fleta, il magnifico; Lazaro, l'estroso; Thill, aitante ed elegante; Tauber, intelligente e squisito; Martinelli, eroico e massiccio; Bonci, tecnicista sfavillante. Tra Caruso e Bonci - e una pleiade di cantori per tutti i gusti e gli stili - che cosa avrei dovuto fare io, che venivo, incauto ed ignaro, dalla trincea? Ebbene: l'esordio fu una rivelazione, di cui tutta Roma parlò; di lì a un anno, la rivelazione al Dal Verme di Milano col "Rigoletto", e tutta l'Italia ne parlò. Dopo di che, i successi di Bologna e di Madrid. Quindi il Colon, la Scala, il Metropolitan. Una voce, per due terzi vuota, era dunque arrivata in primissima fila, lasciando alle spalle gran parte di quei cantori, dotati sino all'inverosimile. Queena Mario, non ha capito che i più, quando imparano a cantare, hanno già perduto il coraggio di cantare. Io, invece, comincio adesso ad aver tutta la mia voce, dopo aver esplorato tutti i fenomeni della eufonia e della fonetica biologica, e maturato organi, tessuti, cervello e mente. Dicevo che nulla ho fatto che non sia alla radice della logica. E della morale. Questa voce non si estinguerà senza dar luce e vibrar suoni fino all'ultimo, inevitabilmente. Questo è il così detto 'caso' Lauri-Volpi, sotto uno dei suoi molteplici aspetti meno conosciuti, ma più reali. »

(da: G. Lauri Volpi - “A viso aperto”, Corbaccio, dall’Oglio editore, 1953)

"Non basta un disco", di Giacomo Lauri-Volpi

Giacomo Lauri Volpi : "NON BASTA UN DISCO..."

 
Si è pubblicato, di recente, il Dizionario critico-biografico dei cantanti con discografia operistica, dal titolo "Le grandi voci" : un grosso volume abbastanza appariscente come veste tipografica, diretto e redatto in gran parte da Rodolfo Celletti, per incarico dell'Istituto per la collaborazione culturale. Il Celletti è un critico vocale tra i più sperimentati e provveduti. Ma, sui migliori, ha il vantaggio di aver studiato a fondo la fonazione umana sulla sua propria voce: una voce qualunque, con la quale poté formare una gamma di suoni che gli ha permesso di eseguire alcuni brani d'opera, ispirandosi alle voci più celebrate che, a suo giudizio risultano più tecnicamente educate ad esprimere sentimenti e immagini sonore.

Il Celletti desidera - da uomo di spirito e di acuta intelligenza - che gli si dia, sulla sua ponderosa e poderosa opera, un'opinione assolutamente schietta, in sede critica, "senza obbligo, da parte del critico, di essere dolce di sale", giacché, a somiglianza di Aristotele, preferisce essere "amico più della verità che non dello stesso Platone".

D'accordo. In tempi di discomania, e di collezionisti arrabbiati di cimeli vocali, è facile cadere nell'errore o nell'equivoco. Ora, se il Dizionario pecca di inesattezze, mentre aspira a guidare gli orecchianti e i dilettanti nell'ascolto di dischi di questo o quel cantante, il risultato di tanta fatica diventa assai discutibile; non raggiunge, dico, lo scopo prefisso: quello di illustrare i valori vocali e interpretativi degli artisti lirici più famosi.

Per fortuna, il Celletti non si fida sempre dei suoi orecchi e del suo gusto personale. Con frequenza cita, a conforto della sua tesi, i testi di studiosi dell'arte vocale e le opinioni di coloro che udirono direttamente le voci trapassate alle quali i dischi non rendono giustizia. Tra coloro si è compiaciuto annoverare lo scrivente, il quale nelle "Voci Parallele" esprime giudizi di prima mano, derivati dalla cooperazione scenica con le Voci registrate. Però alcuni fra i suoi collaboratori, pur attingendo alla stessa fonte, non fanno altrettanto, a voler giudicare, ad esempio, quanto ha fatto colui che, pur servendosi, senza citarle, delle "Voci Parallele" nella parte critica, ne trascura poi la parte biografica, commentando la voce di Lily Pons. La quale, sì, ebbe per agente Maria Gay-Zenatello, ma soltanto da Maria Ros ricevette la spinta iniziale per decidersi ad andare a New York. "Io mantengo - ella scrive - sempre un grato ricordo di Maria Ros, che fu per me la chiave che mi aprì la porta del Metropolitan".

La singolarità di quella voce infatti consisteva nella capacità di attaccare il "fa" naturale sopracuto a bocca chiusa, e arrotondare i suoni. Ond'è che la riproduzione discografica dà a intendere che la Pons dominasse una gamma sonora quasi oscura e voluminosa. Il microfono fa di questi regali e non gli si può sempre riconoscere la fama di "alta fedeltà". Ora, se il collaboratore del Celletti fosse stato più scrupoloso, gli amatori e i cultori del canto avrebbero conosciuto un esempio eloquente di una Voce, che, respinta in patria, poté per la sua capacità e il buon gusto, trionfare dalla notte alla mattina persino sulla ribalta di una massima scena.

Nuovo caso d'inesattezza è dato da un altro collaboratore del Dizionario. A proposito di Lucrezia Bori, egli afferma che la soprano spagnola esibiva "voce limpida e flautata". Limpida sì, flautata, no. E tanto meno "dal suo canto scaturivano suoni di miracolosa trasparenza". Questo proprio, no. I discomani con cotali ameni discorsi, non potranno, di certo, farsi un'idea sia pure approssimativa, della voce di Lucrezia Bori. La quale, specie nelle note acute, strideva e sforzava. Flautata, la voce della Galli Curci, alla quale per contro il critico attribuisce "un timbro più vitreo che cristallino". Vitreo, invece, era proprio quello della Bori.

Tutto ciò accade quando ci si arrischia a giudicare una voce soltanto sulla base della così detta documentazione discografica. Ed allora persino la Pareto, voce calma e pallida, viene presentata come aspra: "a volte, gli acuti suonano un po' striduli".

Al contrario, in tutta la gamma, la soprano spagnola eccelleva per levità di emissione, sorretta dal fiato e dall'intenzione. Ricordo la romanza della "Marta", opera che eseguimmo insieme nella Compagnia del Metropolitan. Niente di più vaporoso e leggiadro ho mai udito in una voce umana. Dunque bisogna andare adagio con i giudizi che s'ispirano al meccanismo degli... elettrodomestici, negatori assidui di ogni spiritualità sonora.

Ma andiamo avanti. Il critico, riferendosi al tenore francese Georges Thill, assicura che la maschia voce del parigino, eccellente esecutore della "Carmen" e dei "Pagliacci", "col metodo di colorire la parola richiama un poco quello di Schipa (a volte si coglie anche qualche affinità di inflessione tra i due tenori)". Non so se il nostro critico abbia mai udito G. Thill, in persona, sul palcoscenico. Posso assicurarlo che il francese somiglia a Schipa come, ad es., chi scrive a Tagliavini. Il fatto è che i dischi ingannano assai spesso e imbrogliano le carte assai volentieri. Abbiamo il caso di Mario Lanza, di cui, giustamente, il Dizionario non fa cenno. La voce dell'italo-americano sfida, in disco, quella di Caruso.

Tutto ciò non vuol dire che il Dizionario de "Le grandi voci" sia opera vana. In genere, le voci grasse e voluminose hanno tutto da guadagnare nella registrazione. Le voci dal timbro luminoso vengono spolpate dalla macchina, ridotte a mal partito. Il cantante lo sa. Se appartiene alla prima categoria, va lieto e fiducioso a incidere dischi; se alla seconda, ci va nervoso e diffidente, sapendo che il tecnico del suono gliene farà di tutti i colori. E, allora, addio interpretazione, ispirazione, estasi, stato di grazia.

La documentazione fonografica, a sussidio del giudizio critico, risulta aleatoria, per chi, in anticipo, non conosca la voce registrata. E' valida invece, utile e necessaria quando chi consulta la compilazione discografica, già conosce le note caratteristiche di quella ed è in grado di riconoscerla o no ascoltando l'incisione.

Si dice, ad esempio, che la voce di Battistini avesse colore tenorile. Per forza. Il disco fa sentire trasportati di un tono sopra i brani eseguiti dal sommo baritono sabino. Ma Battistini otteneva dal suo strumento duttilissimo tutti i colori che convenivano all'interpretazione musicale. Come Cialiapin. La macchina "parlante" - come fu chiamata - è un congegno che va usato con discrezione e intelligenza. Soltanto gli esperti e i provveduti possono trarne informazioni giuste. Altrimenti succedono guai. Una sopranino, di cui recentemente la Scala ha fatto giustizia sommaria, osò affermare in una sua sciagurata intervista che gli autentici cantanti "facevano morir dal ridere". La poverina aveva ricevuto... informazioni, non propriamente attendibili, dalla documentazione fonografica...

Quanto alle informazioni biografiche sul mio conto, il Dizionario notifica: "Si vuole che nello scrivere la parte di Calaf Puccini si sia ispirato alla voce di Lauri-Volpi". Orbene, martedì 7 ottobre 1941 sulla "Stampa Sera", di Torino, Giuseppe Adami nella rubrica "Variazioni scaligere" scriveva: "... desiderato e sognato da Puccini vivente come creatore del Principe Calaf, fu Lauri-Volpi". Il librettista della "Turandot" non avrebbe fatto sì perentorie affermazioni, se non avesse voluto smentire i "si vuole" e i "si dice", a favore di altri tenori che furono interpellati dopo che Lauri - Volpi non si era accordato con i dirigenti scaligeri. Ma creò lui la parte al Metropolitan, e al Colon, appunto perché ai direttori di quei teatri era nota la volontà del Maestro di Lucca.

Dunque, l'esattezza storica va rispettata quando si tratta di compilare dizionari critico biografici. Ma qui la colpa non è del Celletti, che non conoscendo l'esistenza dell'articolo dell'Adami ha voluto lasciare in bilico la notizia, temendo che un eventuale rampollo di qualche artista scomparso, potesse dargli la croce addosso. A parte i rilievi, va riconosciuto che, su moltissime voci, il Dizionario fornisce informazioni adeguate. Il Celletti può dirsi orgoglioso della strenua fatica, compiuta con rovente passione e lucido intelletto.

(da: G. Lauri Volpi - "Incontri e scontri", 1971)

L'importanza di acquisire una tecnica esatta, senza abusi di suoni aperti e non spalancando le note di passaggio


 


L'importanza di non basarsi sulla mera natura, facendo l'errore di abusare di suoni aperti e di spalancare le note di passaggio, e di avere idee generali chiare sul canto lirico :

« La Stagione al Metropolitan terminò con la conferma per le venture e mi ottenne la scrittura per quella estiva a Ravinia Park, presso Chicago. M'impegnai a cantare in questo Teatro l' "Elisir d'amore", "Fra Diavolo" e "Aida", opere che avrei studiate durante i tre mesi precedenti l'inizio di stagione.
Era necessario ch'io ampliassi il repertorio ad ogni costo e mi rendessi utile con la versatilità. I criteri di Gatti-Casazza mi eran noti. Sottoposi la gola a una fatica sovrumana e la mente a una tortura spietata. Al trentesimo giorno non avevo più né voce, né memoria. La voce non resisteva alla tessitura grave del ruolo di Radames. Maria mi fece comprendere amabilmente ch'io abusavo del dono naturale. "La tua stanchezza - mi diceva - non deriva dalla fatica del cantare, ma dall'errata emissione dei suoni. L'esercizio metodico, sostenuto dalla disciplina di una tecnica esatta, non potrebbe provocare l'afonia che ti affligge. La voce naturale anche la più dotata, non sarebbe sufficiente a superare neanche le difficoltà dell'atto del Nilo".
Dovetti convenire che la voce non è privilegio, che si possa abbandonare a se stesso. Mi affidai all'insegnamento della dolce consorte, con l'umiltà e il pentimento di chi troppo presto si credette sicuro delle proprie forze e rischiò di perderle per sempre. Soprattutto io avevo bisogno di idee chiare. Studiando con lei mi accorsi che le note basse del soprano corrispondono, per colore ed emissione, alle medie del tenore: quelle che nella mia voce presentavano lacune proccupanti. Provando, riprovando ed imitando, con leggerezza, parsimonia ed equilibrio, i suoni iniziarono una lenta trasformazione.

Maria divenne la mia collaboratrice assidua, la mia guida, la mia consigliera. Senza di lei le disavventure future nel "Re di Lahore", nel "Guglielmo Tell" e nel "Trovatore", di cui farò menzione a suo tempo, si sarebbero mutate in catastrofe definitiva e della mia voce non rimarrebbe, ora, neppure il ricordo. Quando ripenso alla fine immatura di gloriose voci, che la natura e Dio offrirono in dono a creature privilegiate, comprendo in tutto il significato la fortuna di possedere l'anima della mia Donna, che salvò l'inesperta, mutevole, variabile, stravagante laringe, affidatami dal capriccio della sorte. L'insegnamento di Maria impedì ch'io perdessi la fiducia nei miei mezzi e lasciassi a metà la carriera (...)
A Ravinia Park, oltre il consueto repertorio, cantai le opere da poco studiate. Nemorino, Fra Diavolo e Radames dimostrarono i risultati tangibili della disciplina vocale, che mi ero imposta. Mi stupivo come avessi potuto cantare, per quattro anni, senza pensare al suono prima di emetterlo, senza distribuire i fiati, senza coltivare le risonanze, senza legare le frasi, senza uniformarmi al complesso delle armoniosità orchestrali. Naturalmente l'attenzione molteplice e simultanea mi costava gran fatica. Non potevo in così breve tempo rimediare a tutte le deficienze, naturali o acquisite per falsi supposti, che avevano messo in serio pericolo la salute della mia voce.

Nell'inverno seguente tornai al Metropolitan e vi cantai "Andrea Chénier", "Manon" di Massenet in francese, "Carmen" in francese e "Re di Lahore" in francese, opere alternate con le altre del repertorio abituale. Io non conoscevo l'importanza e l'asprezza del "Re di Lahore". Quest'opera esige nel tenore una voce drammatica, ampia, oscura e centrale, come l' "Otello". Perché la direzione artistica del Metropolitan l'affidò a un tenore di voce estesissima, brillante, limpida non ho mai capito. Né mi so persuadere della legittimità dei motivi che l'indussero a impiegarmi, a brevi intervalli di tempo, nella stessa settimana, in un repertorio che comprendeva "Barbiere" e "Rigoletto", "Re di Lahore" e "Aida", "Traviata" e "Cavalleria", senza riguardo alla diversità dei generi e alla fragilità della voce. Con che cuore potevano esigere la critica dei giornali e la malevolenza dell'ambiente una perfetta intonazione, soavità di "legato", nobiltà di stile da un malcapitato artista, al quale senza scrupolo s'imponeva di smaniare follemente nell' "Io son disonorato" di Aida e di sospirare ventiquattro ore dopo: "Bella figlia dell'amore"? Per resistere alla fatica ed evitare il rischio dovetti giocare di astuzia e inventare trucchi, stillando note dal cervello più che dalla gola esausta. Divenni sospettoso, irrequieto, violento. Sentivo che presto avrei perduto la voce per sempre e dovevo fare economie strettissime per ritirarmi dal Teatro, almeno coi vantaggi di una discreta fortuna. La "claque", non pagata, mi zittiva ferocemente. La stampa criticava aspramente la mia povera voce martoriata. Io soffrivo dell'offesa che si recava alla giustizia. Pensavo che si sarebbe dovuto invece censurare un'Istituzione, la quale subordinava l'attività degli artisti alle esigenze del programma settimanale, e non teneva conto di quelle derivanti dai diritti naturali e tecnici dell'organo più delicato e cagionevole: la voce del tenore. Vissi allora in clausura. Divenni selvatico a forza. (...) Maria mi custodì con le sue cure di madre, di sorella e di sposa e non permise che il male prevalesse e i nemici potessero più della sua bontà serena e fidente.
Compii la stagione con onore. Seppi temporeggiare e vincere, poiché la mia collaborazione risultò di grande utilità alla Direzione del Metropolitan, per lo sviluppo e l'equilibrio del complesso programma. Mi rassegnai all'ineluttabile forza, che costituiva l'essenza di una Istituzione mirante al complesso artistico, non all'incolumità vocale dei singoli. (...)

Amante dell'indagine, mi son fatto lecito di esaminare le caratteristiche di cantori rappresentativi coll'unico scopo di prevenire i giovani e metterli in guardia dagli smarrimenti, di cui sono stato vittima io stesso per oltre un decennio della mia carriera. Esordendo credetti alla continuità di un dono naturale perenne; alle prime schermaglie colle difficoltà credetti nel verbo rivelato di cantanti illustri, di cui non compresi i reali, intimi pregi e imitai i difetti esteriori: quindi l'equivoco di considerare ideali le inflessioni gutturali di Tizio, le nasalità di Caio, le emissioni mistificate di Sempronio. Incertezze, disuguaglianze, false intonazioni, dubbiosi attacchi, suoni ibridi furono il risultato del tremendo malinteso, che portò a varie riprese la mia voce sul limitare della fine. Fra le molte vie, che mi vidi innanzi aperte, frequentai tutte fuorchè la dritta, e già avevo perduto ogni speranza quando apparve la mia Diletta, "maestra e donna", che pazientemente superò le prevenzioni dell'orgoglio fondato su di una occasionale, improvvisa celebrità. Anch'io scambiai il falsetto per la mezzavoce ed il misto, abusai di suoni aperti, spalancai note di passaggio, camuffai le deficienze colle sonorità nasali, sostenni con spasimi e contrazioni gutturali i suoni vacillanti e vidi ogni giorno di più diminuire la resistenza della respirazione e aumentare lo sfaldamento dell'organismo vocale come per lo sviluppo di un morbo, che non perdona. La salvezza mi venne dalla devota Compagna, che mi guidò con intelletto d'amore e non si fece abbagliare dalla luce equivoca di una gloria effimera. Nei più recenti anni acquistai la certezza di idee chiare, e compresi i miei difetti e gli altrui che oggi addito, perchè se ne guardino, ai devoti del canto, tratti per inesperienza all'imitazione d'esteriorità. (...) L'esperienza di me medesimo, che pubblicamente confesso, valga ad insegnare che la professione del canto è la più ardua ed espone alle più torturanti delusioni i faciloni e gli ingenui. Fra i direttori d'orchestra, versati nello studio critico della voce, il maestro Gino Marinuzzi, sotto la cui bacchetta cantai varie stagioni, mi parve il più attento e scrupoloso. Egli accompagna l'artista, incline al panico ed esposto alle insidie della partitura e della fama, coll'esperienza psicologica e l'acume tecnico di chi allo strumento della voce umana ha dedicato le attenzioni che i direttori sogliono concedere solo agli strumenti della loro orchestra. »

(da: G. Lauri Volpi - "L'equivoco", 1938)


Canto leggero e "mezza voce" secondo Lauri-Volpi

Lauri Volpi - CANTO LEGGERO E "MEZZA VOCE" :


« Un gruppo di studenti e dilettanti di canto scrive: "Abbiamo letto la sconcertante intervista concessa a Mario Rinaldi da Mario Del Monaco il quale, a un certo punto, afferma che il canto "a piena voce", basato su "un allenamento muscolare e fisiologico" è l'unico valido. E aggiunge: "Il cantar leggero uccide la voce; il cantar grave non reca danno." Alla fine, porta in ballo anche lei: "Lauri Volpi - dice - ha 22 anni più di me e sembra un giovanotto. E non si può dire che gli faccia difetto la voce. E' questione di vita e di sacrifici. E in ciò Lauri Volpi è un modello." Citando lei, pare voglia convalidare il suo metodo. Che ne dice? Vuole esprimere la sua opinione al riguardo? Chi studia il canto, dopo quella intervista, non sa che pesci pigliare." (...)

Non confondiamo i diversi stili con la tecnica. Questa è una e vale per tutti i tempi ed è basata su leggi fisiologiche e acustiche inalienabili intese a stabilire una economia vocale che preservi la fonazione dal decadimento prematuro. Il Rinaldi, dopo la "prima" d'Otello, recentemente rappresentato all'Opera, aveva notato "la voce oscura e un po' dura" del protagonista, aggiungendo subito che oscurità e durezza si addicevano a quel personaggio. Faceva, insomma, intuire che la durezza, cioè il "cantar grave e oscuro", non potrebbe convenire ad altri "personaggi". (...)
Ciò premesso, debbo gradire a Del Monaco la constatazione con la quale mi ha cortesemente chiamato in causa. Sì, a 40 anni di carriera, la voce mi è rimasta intatta nella gola e sul fiato. Sarebbe interessante dimostrarlo come feci un anno fa col Trovatore nel primo teatro di Roma. E' un'opera che riassume tutte le difficoltà che si oppongono a una voce, nella prima e nella seconda ottava, esigendo suoni gravi, centrali, acuti in perfetta omogeneità. Guai se l'artista non possiede la MEZZA VOCE, da non confondere con il FALSETTO, a cui si riferisce Del Monaco accennando al "canto leggero" ch'egli ripudia. Il falsetto, infatti è la tisi della voce. Ma la MEZZA-VOCE è voce vera, naturale. Con essa, Schipa, e Gigli con il suo "misto" famoso, hanno fatto la grande carriera. Ma Gigli, interrogato non può rispondere. E Schipa è a Budapest. Che direbbero circa il ripudio perentorio del "cantar leggero"? Avendo io cantato i tre repertori: del tenore leggero (con il Barbiere), del lirico (con il Rigoletto e i Puritani), e del drammatico (con il G. Tell, il Trovatore, il Poliuto, gli Ugonotti e l'Otello) potrei assumere una posizione intermedia, al di sopra della mischia. Sarebbe di certo sommamente interessante poter praticamente dimostrare la mia tesi. Immaginate un gran concerto in cui cantassero pezzi di vario genere e stile, Del Monaco, Di Stefano, Corelli e il veterano che scrive. I risultati darebbero un'idea esatta della realtà tecnica ed estetica del canto teatrale. (...) Direzione dello Spettacolo, Sovrintendenza, Radio, giornali, hanno voluto seppellirmi innanzi tempo. Tuttavia sono pronto al "gran cimento", ed il pubblico sentirebbe che il veterano saprebbe sfoderare una voce e sperimentare un metodo che non falliscono.

E QUAL è questo metodo? Quello dell'armonia dei contrari. Niente falsetti sfoggiati, senza un minimo di sostegno diaframmatico in concorso con la continuità della colonna di fiato, tramutato in suono. E niente gravità eccessive, che esigono un esagerato sfruttamento della capacità polmonare. Sfruttamento che verso i 50 anni determina enfisemi, debolezza e stanchezza del mantice, esaurimento nervoso. "Abbassamento muscolare e fisiologico" sì, ma senza esagerare. Si possono avere, anche nell'atletismo sportivo, muscoli sviluppatissimi, ma nervi deboli. Giova dunque tener presente l'immagine della corda e dell'arco. Tensione sì, ma con elasticità tale, che consenta di lanciare lo strale a lunga distanza. Altrimenti: "corda che troppo è tesa, spezza se stessa e l'arco". E ciò, di solito, avviene a cavallo dei 50 anni - ho detto - e in corrispondenza del climaterio, età critica che mette la rivoluzione nell'organismo umano.
Tamagno cantava di fibra. A 46 anni, smise di cantare per il sopravvenuto enfisema polmonare. Caruso, che prediligeva negli ultimi anni le sonorità gravi ed ampie fino a sembrare un baritono, se ne andò all'altro mondo a soli 51 anni, per una semplice bronchite che, a cagione della sopravvenuta debolezza del tessuto polmonare - che è delicatissimo - degenerò in polmonite purulenta. E qui viene a capello il mio incontro con Giovanni Zenatello, che per anni si era sfogato in Carmen e in Otello.
Nel 1928 mi scritturò alla Arena di Verona per eseguire il Rigoletto, che mi diede l'occasione preziosa di conoscere Gabriele D'Annunzio. Il quale, dopo il secondo atto, viene sul palcoscenico: e il pubblico, riconosciuto, gli decretò un'ovazione trionfale.
In quel periodo, io ero ospite di casa Zenatello; una casa stile palladiano, in mezzo a ville, vigne ed orti fiorenti nella turgida estate veronese. Una mattina, Zenatello mi chiamò nel suo salotto. Volle ch'io l'udissi cantare "Celeste Aida". Una meraviglia! Rimasi trasecolato: "E perchè ha smesso di cantare, con questa voce stupenda?".
"Caro amico, vedi? Con questa voce io canto in casa. Ma dimmi: - Vieni stasera a cantare l'Otello in Arena. - Al solo pensiero, incominciò a tremare. All'ora di pranzo, non mangerò. Nel pomeriggio non riposerò. All'ora della recita vedrò rosso. E quando uscirò a cantare l' "Esultate", avrò il fiatone, e alla fine della bravata mi porteranno a braccio in camerino. Hai capito? Non mi manca la voce. L'ho tutta qui. Mi manca il fiato. Ho cantato troppo sotto lo sforzo muscolare. Finché ero giovane, l'impulso mi aiutava. Ma adesso, a 50 anni suonati, capisco che ho fatto una corbelleria nell'adottare un metodo che spossa l'organismo e squassa la voce."

Il fatto è che Del Monaco, in quanto dedito al repertorio esclusivamente drammatico, è una specie di fenomeno. Non può erigersi a capo-scuola di un metodo che a lui dà risultati artistici ed economici notevoli. "Scuola moderna", "metodo moderno", "musica moderna" sono i temi che ricorrono con frequenza nella sua intervista appassionata. (...) Persino l'Otello verdiano è catalogato nella "musica moderna", Dio mio! Quando mai la musica moderna, tutta declamata, con accompagnamento orchestrale "scientifico", esprime dal suo seno idee melodiche? Otello canta, canta sempre, persino nei momenti di esaltazione epilettica. E canto vuole dire alternare voci alte e gravi, dolci e forti, voce spiegata e mezze-voci. Proprio per l'Otello, Verdi si proccupava delle mezze tinte, del fraseggiare armonioso e contenuto, insomma delle "mezze-voci". E a proposito di queste scriveva a Ricordi: "Come può eseguire il Tamagno, le lunghe e complesse frasi a mezza voce che non ha?". Non protestò la Pantaleoni, sostituendola nell'edizione romana, perché non sapeva "portare la voce in testa" - parole testuali - e perciò non riusciva a sostenere "la Canzone del salice" e la successiva "Ave Maria", in cui la Muzio, la Tebaldi, e recentemente la Cavalli hanno dimostrato come si canta sul tenue filo del soffio e "a fior di labbra"?
Ma Del Monaco ha l'esempio del suo giustamente ammirato Gobbi "col quale" - egli dice - "è un vero piacere cantare: si tratta di un artista autentico". Ebbene, che cosa ha dato Gobbi, eseguendo il "Sogno" famoso: "Desdemona soave, il nostro amor s'asconda"? una perfetta lezione di mezza-voce, mai cadendo nel falsetto. Se avesse usato "il cantar grave" invece del "cantar leggero", insinuante, sarebbe svanita la demoniaca perfidia di Jago. (...)
Del Monaco (...) telefonandomi dall'Hotel Plaza, volle confessare, per mia soddisfazione, che si era deciso a studiare l'Otello dopo aver scoperto una nota da me emessa nel disco dell' "Esultate". Dietro quella nota allineò tutte le altre, con risultato felicissimo. Poi venne a visitarmi con la sua consorte, collaboratrice ammirevole dell'artista, qui nella casa romana. Ebbi modo di constatare (...) i tormenti della sua vita interiore. Mi disse che sentiva, ogni giorno di più, incupirsi la sua voce e temeva che alla fine avrebbe dovuto cantare la parte del Gobbo nel Rigoletto. Celiando, risposi che in quel giorno gli sarei stato a fianco come Duca di Mantova. Son pronto a mantenere la promessa. »

(da: CANTO LEGGERO E "MEZZA VOCE" - Incontri e scontri di Giacomo Lauri Volpi - Articolo apparso su "Momento-sera" del 13 gennaio 1961)

La guerra dei tenori, ossia canto “baritonale” o vero canto tenorile per il Rodolfo della “Bohème” di Puccini?

La guerra dei tenori, ossia canto “baritonale” o vero canto tenorile per il Rodolfo della “Bohème” di Puccini? Questo il saggio giudizio di Lauri-Volpi :


Di recente, alla Scala, è scoppiata quella che la stampa si è divertita a chiamare “La guerra dei tenori” forse ricordando quella guerra artistica che due secoli addietro scoppiò a Parigi dopo la morte del Re Sole, colui che nominò sovrintendente della “Musica Reale” G. B. Lulli (…)
I tenori odierni, indulgendo al canto spianato, rifiutano disinvoltamente la tonalità scritta e prescritta dai Compositori d’opera, al fine di liberare la voce da qualunque impaccio di tessitura ardita e dare sfogo ai suoni centrali, carnosi e appariscenti. Se altri tenori, che dispongono delle due ottave, intendono rispettare la musica qual è concepita nel ritmo e nel colore delle note e dimostrano di poter salire con spontaneità e sicurezza all’alta regione dei suoni acuti con voce raccolta nobile e omogenea in tutta la gamma, si vedono avversati o disanimati o esautorati dai baldanzosi sostenitori di quelli.


I fieri “fans” non si accorgono, o fingono di non accorgersi, che quel modo di cantare, a sfascio e a vanvera, porta i loro protetti a sospendere assai spesso le recite per mancanza di fiato o a spezzar le note nel momento culminante di una romanza, benché abbassata di tono. Non si rendono conto che incoraggiando un simile metodo di canto che, per l’evidenza degli infortuni frequenti, va perentoriamente ripudiato, si fanno complici di una decadenza prematura e incoraggiano imitazioni deleterie. I giovani aspiranti alla carriera lirica si sentono istintivamente propensi ad appropriarsi meno dei pregi che delle deficienze degli artisti “arrivati”. E’ un contagio che ha fatto vittime famose e che, qui, non è il caso di ricordare.
Or è accaduto che per avere, lo scrivente, plaudito alla scelta di Karajan (che designò per la parte di Rodolfo nella Bohème un tenore rispettoso delle tonalità e devoto alla scuola classica del canto, sfidando le minacce dei “fans” dell’altro tenore), si è visto arrivare una lettera anonima di protesta. L’anonimo – o gli anonimi – si sente in dovere di raccomandare “vegliardo” che cura questa rubrica, di lasciare che gli altri cantino come loro pare e piace, di “calmarsi”, di non intervenire in assunti che, ormai “non lo riguardano”.

Già, certi scandali riguardano i buffoncelli che li organizzano a tutto danno dei nostri teatri, dell’Arte, di una tradizione rispettabile, non di certo il “vegliardo” che si batte per salvare il salvabile, indicando a chi glielo richiede, il modo di preservare da cadute irreparabili quanti esordiscono in una carriera rischiosa, spesso angosciosa, se non illusoria, votata, in ogni caso, a sacrifici e ad eroiche rinunce.
Non riguardano chi ha consumato decine d’anni di vita nel culto di un ideale d’arte che nobilita ed eleva lo spirito, nello studio di una tecnica rivelatasi ineccepibile. Non riguardano chi ha pure il dovere di chiarire le idee dei profani in materia, e far conoscere dove si trovi la ragione e il torto a quanti hanno domandato un parere spassionato rispetto alla polemica scaligera. Alla quale, del resto, tutti i giornali hanno fatto eco rumorosa e spesso stonata. Il Maestro Karajan, nonostante gli impegni assunti dalla Scala con la “voce ripudiata” ha tenuto duro. E ha fatto il suo dovere. Il “vegliardo” può portare addosso gli anni Matusalemme e nessuno potrà vietargli di esprimere un giudizio schietto, assolutamente immune da prevenzioni e partito preso. Egli ammira ed elogia la “voce ripudiata” in opere che le si addicano e le giovino, ma non certo in quelle in cui essa non riesce ad accostarsi allo spirito e alla natura vocale del personaggio – come quello di Rodolfo – che esige snellezza, eleganza, sveltezza nell’emissione del suono, senza mai calcare la nota passionale e abbandonarsi ad un verismo eccessivo che l’abbassamento della tonalità favorisce con l’aumento di volume a scapito del timbro.

“Rodolfo” è un poetino avvezzo a saltare i pasti, a vivere in lieta e spensierata povertà. Una voce ampia, troppo calda e ben pasciuta non s’addice al suo stile, al suo slancio verso chimere e sogni e castelli in aria. L’anonimo dunque pensi lui a calmarsi e lasci che ai giovani sia rischiarato il cammino che l’esperienza annosa, ma vigile, può indicare senza sottintesi e rispetti umani. Colui che si occulta sotto l’ombra dell’anonimato, non ha il coraggio delle sue opinioni e teme le contrarie.

E così è scoppiata la “guerra dei tenori” che ho detto, ricorda, in certo modo la guerra dei buffoni di due secoli addietro. Per la “Scuola francese”, allora, si schierarono persino il Re e, nientemeno, Voltaire; per la “Scuola italiana”, la Regina e Rousseau: razionalismo contro naturalismo; la declamazione “criarde”, o urlatrice, francese contro il virtuosismo vocale italiano. Per l’attuale “guerra dei tenori”, sono scesi in armi critici, cantanti, giornalisti, direttori d’orchestra, maestri di canto etc. Il critico di un rotocalco diffusissimo ha rimproverato alla “voce ripudiata”, ch’era puramente “lirica”, di essersi guastata nel repertorio lirico spinto” rinunciando alla correttezza e alla sicurezza della fonazione. Perché allora non avrebbe dovuto dire la sua chi, fra tutti coloro, è l’unico che abbia cantato l’intero repertorio operistico e ha sbattuto il naso contro difficoltà tecniche che sembravano invalicabili? Sì, proprio io, pagai di persona quando per le faticose recite di G. Tell, eseguite in tono – dico in tono – rischiai di perdere la voce e rimasi rauco e sfiancato per più giorni.

Fu la mia Maestra – dico mia Moglie – a fornirmi le grucce per muovere, dopo un silenzio prolungato, i primi passi sul pentagramma dapprima vocalizzando sul soffio, successivamente, studiando la soavissima Sonnambula. A poco a poco, la voce guarì, riacquistò la padronanza delle due ottave, fu pronta a ripresentarsi al pubblico del “Metropolitan di New York”. La voce di “Manrico” riappariva in veste dimessa: quella di “Elvino”. Incredulità dei più, al primo annuncio. Ma la realtà fu rivelatrice. Quella recita, diretta dal M.o Serafin, è rimasta impressa nella memoria di molti abbonati, alcuni dei quali me ne scrivono ancora oggi. Dunque, la “guerra dei tenori” potrebbe sortire un magico risultato: riportare all’innocenza iniziale la voce smarrita; il figliol prodigo, alla casa del padre. La “guerra dei buffoni” portò alla riforma del canto, iniziata dal Gluck, con l’adeguare la sensazione all’idea, il suono al concetto, la declamazione alla modulazione del suono nel sentimento. Nelle opere di Bellini, il connubio parola-suono raggiunse, specie nei recitativi, altissimo valore musicale, con eloquente risalto nella “parola scenica”.

Qualcuno ha tirato in ballo Caruso, al quale Puccini consentì l’abbassamento di tono nella Bohème. Ma Caruso era Caruso. In quel momento spadroneggiava nella casa discografica più potente e la sua volontà era legge. Nessun tenore ha mai raggiunto la sua quotazione commerciale. Puccini avrebbe fatto qualunque concessione al trionfante tenore. Basta leggere il carteggio pucciniano per convincersi che Puccini, umile e remissivo, ostinatamente avversato dalla critica ufficiale, faceva di tutto per giovarsi anche della collaborazione di cantanti assai meno redditizi e rinomati del cantore napoletano.

“Sic rebus stantibus”, sarebbe ora che i fans non si affannino a spedire lettere anonime. Si convincano che il fanatismo inconsulto non giova punto ai loro idoli. Anzi nuoce a questi l’incoraggiamento a percorrere una via sbagliata. E chi dice che è sbagliata è uno del mestiere, il quale si rifà alla ciceroniana riflessione: “In generale la maggior parte degli uomini non può capire che cosa occorre alla perfezione. Così avviene anche nelle arti, in cui i profani ammirano e lodano ciò che colpisce gli ignoranti, che non sanno scoprire i difetti. Ma quando sono illuminati dagli esperti cambiano facilmente parere.”

(da : Giacomo Lauri-Volpi - “Incontri e scontri”, 1971)

La “mezza-voce” di seta pura di Bonci, l’ultimo dei belcantisti, che “salva bronchi e polmoni”

La “mezza-voce” di seta pura di Bonci, l’ultimo dei belcantisti, che “salva bronchi e polmoni”, nella testimonianza di Lauri-Volpi :

Nel febbraio dell’anno scorso, è scaduto l’anniversario della primissima recita di un “Ballo in maschera” che, come il “Trovatore”, ebbe il suo trionfale battesimo all’Apollo di Roma, precisamente il 17 febbraio 1859. Per noi romani, ha un duplice significato che consiste nell’aver Roma compreso il genio verdiano fin dalle prime recite delle due opere, che danno un’idea dell’evoluzione dell’autore verso l’ultima definitiva forma di espressione melodrammatica, raggiunta nell’ “Otello” e nel “Falstaff”.
In cento anni, diversi tenori si cimentarono nella parte scabrosa del protagonista di “Ballo in maschera”, ma nessuno, al pari di Alessandro Bonci, vi ha lasciato una impronta personale.
E chi era A. Bonci? Di lui non parlano le grosse enciclopedie che invece segnalano l’esistenza di altri artisti assai meno notevoli e rappresentativi. La nuova generazione non ha avuto sentore del cantante, che è morto appena 18 anni fa. Ultimo modello di una tradizione che si sostenne per oltre un secolo, grazie al virtuosismo vocale e alla serenità lineare nel canto e rivale di Fernando de Lucia, Bonci non volle indulgere, come questi, all’incipiente canto verista, e farsi anello di transizione. Con A. Bonci termina l’era del “bel canto”: uno stile, un modo di espressione fonetica e verbale che ebbe il capostipite in Emanuele Garcia, padre della Malibran, eredi: Nourrit, Rubini, Mario de Candia, Gayarre, Angelo Masini. Con Bonci, la grazia confina con la preziosità e, talvolta, con la leziosità, specie negli ultimi tempi, in cui egli abusava di “acciaccature” quasi per assicurarsi dell’appoggio delle note acute. Ma quale dizione, quale schiettezza e forbitezza di fraseggio!

La sua statura era da annoverarsi tra le minime. (…) Nel 1896 esordendo al Regio di Parma col “Falstaff”, i terribili e faziosi conterranei di Verdi non si scandalizzarono. E quando il “miniaturista” ebbe eseguito “Bocca baciata non perde ventura, ma si rinnova come fa la luna”, con la “u” di luna, presa a mezza voce, rinforzata e poi ridotta a puro, lucente filo di suono fino all’ultimo soffio, i parmigiani decretarono al nuovo abitatore d’Olimpo gli onori del trionfo.
E’ evidente che a Bonci quella sua statura al di sotto della media, impediva di rendere vivo un personaggio come il “Faust” o come il puritano “Arturo”, armati di spada e cappa. Ma l’arma del sorriso e la sapienza tecnica facevano di “Salve dimora” e del “A te, o cara” un ricamo di melodia in cui non si sapeva se più ammirare la bellezza della composizione o la delicatezza e la giustezza dei suoni emessi dall’esecutore.

Negli ultimi tempi, Bonci, per adattarsi al nuovo repertorio, volle cimentarsi nella “Tosca”. Il rivoluzionario “Cavaradossi” che “muore disperato”, non guadagnò granché dall’esibizione del nuovo interprete. L’esito della prova lo indusse a tornare all’ovile. E tentò l’avventura di un “Ballo in maschera”. (…)
Verdi, di certo, non avrebbe supposto che un giorno, il Fenton del “Falstaff”, da lui udito al Regio di Parma, si sarebbe armato di spada e di autorità per divenire nientemeno che il Conte Riccardo, governatore di Boston. Andò a sentirlo il 21 maggio 1898, e scrisse “al bravo tenore Bonci” esprimendo “graditissima sorpresa” per la risatina inserita nella pausa del brano: “E’ scherzo od è follia?”, e ne riconosceva all’artista “la unica privativa e specialità”. A nessun altro esecutore prima di Bonci, era venuto in mente quell’intercalare della brillante cascatina di note, onde il “cesellatore” aveva infiorato il suo pezzo per fare “sensazione”.
I successivi esecutori, compreso chi scrive, non riuscirono a far dimenticare il delizioso “usignolo” di Cesena. La loro risatina rivelava l’intenzione degli imitatori e rinsaldava il ricordo di chi deteneva la “privativa e la specialità” delle notine scintillanti. Infatti, mai più del concertato fu richiesta la replica che il pubblico esigeva dalla voce di A. Bonci. E Verdi se la godeva, compiaciuto.

 
Con ciò il lettore può farsi un’idea di questo nostro artista che baldamente teneva testa al coetaneo napoletano, ovunque trionfante con la passionalità del canto e il denso, sensuale colorito della voce. Due cantanti affatto opposti, inconciliabili. (…)
Bonci e Caruso, proprio perché opposti, destavano curiosità e facevano interesse. Il pubblico accorreva ad ascoltarli, a cogliere le differenze di due epoche nel loro canto. Poi venne la fila incolore delle voci fabbricate a serie, a immagine di un tipo unico. Donde la decadenza del canto che oggi tutti si danno a lamentare, senza correre ai ripari, a stabilire idee chiare per un ritorno alla sana fonazione, di cui A. Bonci fu coraggioso campione in scena e maestro nella scuola.

Egli stesso, in seguito al mio esordio, mi avvertì di star lontano dai mali passi, un giorno che mi presentai a lui sotto gli archi dell’Esedra, in Roma. Elogiò il mio materiale vocale ma non approvò in tutto la mia tecnica. Quale tecnica? Io venivo dalla trincea e cantavo con l’innocenza dell’ignoranza. Egli propugnava vivacemente la necessità di attenersi alla “mezza voce” e non imitare coloro che abusavano dei suoni falsi. “Il falso” – diceva – “è cotone. La mezza-voce, è seta pura, e salva bronchi e polmoni.”
Lo ascoltai con emozione e convinzione. Di lì a pochi anni, ci rivedemmo al “Central Park” di New York, davanti all’ “Hotel Majestic”, dov’egli aveva il suo studio ed insegnava. Io stavo al Metropolitan già da sei anni, e il mio repertorio si era esteso dal Rigoletto al Trovatore. Gli dissi che avevo fatto tesoro dei suoi ammonimenti. Mi ringraziò, confuso. Ancora lo vedo il “piccolo” grande artefice dei suoni. Aveva sempre il bel sorriso sulle labbra argute, ormai sbiadite. La temperatura di New York non era propizia alla sua salute. Ma, la necessità!... Ecco un principe del canto, l’ultimo rampollo di una dinastia, affermatasi gloriosamente in uno dei più bei secoli della storia, aggirarsi come uno qualunque nel tumultuante caos della metropoli tentacolare.

(da: Giacomo Lauri Volpi - "Incontri e scontri", 1971)

La scuola romana dell'intenzione nella didattica del bel canto di Antonio Cotogni

Antonio Cotogni, "Capo-scuola" della "Scuola romana" del bel canto e creatore, nel principio dell'INTENZIONE, della dottrina della "metafisica" del canto :

« Non ci dovrebbe essere bisogno di segnalare che nacque nei pressi della luminosa Basilica, dove giace la scultura della "Protettrice della musica": la romana Cecilia, che morendo ascoltò il canto degli angeli. Cotogni, maestro di belle sonorità a "Santa Cecilia", in via dei Greci, morì in una stanzetta, in via del Babuino, non lontano dalla sua scuola. Morì premuto da estreme necessità, e, se non fosse stato per una colletta di discepoli e ammiratori, non avrebbe trovato nemmeno un posticino, un angolo di terra, dove lasciare la sua spoglia in Campo Verano, prima del suo volo verso le stelle. Fin oltre gli ottanta anni, aveva insegnato in quel Conservatorio. E tutto era andato liscio fino al mattino in cui il vegeto e dolce vegliardo fu chiamato in Direzione per sentirsi dire che i "limiti d'età" non consentivano ch'egli restasse più al suo posto. Per via dei "limiti d'età" regolamentari, Cotogni si vide, dunque, relegato in casa con la pensioncina miserella ed offensiva di trecento lire al mese. Il "Capo-scuola" della "scuola romana" del bel canto si vide, ad un tratto, alle prese con la fame, con la morte. È ovvio che, se ci fu bisogno di quell'affrettata colletta per accompagnare il Gran Vecchio al cimitero, il trasporto non venne fatto a spese dell'Accademia di S. Cecilia, né del Municipio dell'Urbe come si è visto in altri casi (...). Cotogni, povero in canna, ebbe soltanto l'omaggio dei suoi devoti. Ed era romano, accademico di S. Cecilia, insegnante a S. Cecilia. Era una gloria vera, schietta nella storia del melodramma. Il popolo lo amava. Passando per il Corso, dopo la scuola, la gente si scopriva, lo chiamava a nome, facendo largo davanti a lui. A S. Cecilia, egli stava "numen loci". E al termine delle lezioni, i giovani gli facevano corona, e non soltanto gli studenti di canto ma di tutte le classi e materie, per salutarlo, baciargli la mano, come famiglia numerosa intorno all'avo comune. E Cotogni ogni giorno s'inteneriva, e sorrideva a tutti con quel suo viso ampio e rubicondo d'eterno fanciullo, e parlava in romanesco con l'accento cordiale, rasserenante. Così se ne andò, sommessamente, da quaggiù, il 15 ottobre del 1918, un galantuomo che fece del canto il suo pane quotidiano, la sua fede religiosa, la giustificazione del suo esistere. Titta Ruffo e Galeffi se ne servirono ad usura. Basiola, Franci, e innumerevoli altri impararono alla sua scuola ciò che avrebbe costituito il meglio delle loro qualità (...). Ma perché parlo di Cotogni? Perché fui suo alunno anch'io, per pochi mesi, prima di quel maggio 1915, il mese esplosivo della penultima guerra mondiale. Serbo gelosamente il carteggio ch'ebbi con lui dal fronte. Dopo l'azione del Podgora e la presa di Gorizia, sapendomi sano e salvo tra i "conquistatori" della Brigata Casale, mi scrive: "Caro figlio benedetto, grazie al buon Dio e alla Madonna SS.!!... Siamo tutti felici per te e t'inviamo, io e gli amici tutti, abbracci col cuore. Domanda del mio nipote Sottotenente Cotogni - 159 Regg. Fanteria. Ti benedice il tuo A. Cotogni" (...) »

Dedica del celebre baritono ed insegnante di canto Antonio Cotogni all'allievo Lauri-Volpi - Roma, 1918
 
« Quand'era vivo, si andava a Santa Cecilia ad ammirare quell'uomo che cantava brani famosi a piena voce, senza ripieghi e lenocini. A quell'età, ciò sembrava un miracolo di Dio, da lui glorificato con l'esempio di una longevità iperbolica, che altrove, fuori d'Italia, sarebbe stata magnificata come un fenomeno d'insigne vitalità, per l'onore della razza (...) Ma la sua voce non è morta, qualcosa in noi vibra che non può, né deve morire. Il suo canto scaturiva da una sorgente morale nella quale le nostre giovani anime non potevano non bagnarsi senza mondarsi. Dalle sue lezioni uscivamo tutti più ricchi di cognizioni e più nobili nei sentimenti. Allora c'era il culto degli uomini saggi (...). Lui non si stancava di ripeterci che l'arte è "sacerdozio", che "la messa si dice sull'altare e non in mezzo alla strada", che il canto esige rinunce sacrifici lavoro e studio indefessi. Molti gli credettero, in quei tempi. Ma oggi, chi gli darebbe retta? (...) Vedo ancora "Zi Toto" inseguire, con quegli occhi celesti aperti a dismisura, le immagini della sua mente quando una cosa non gli piaceva, una nota non gli "suonava", un'azione non corrispondeva alle sue convinzioni. Con il sorriso buono cercava d'inoculare il suo pensiero, modificare uno stato d'animo (...) Non era soltanto un artista. Si sentiva padre per vocazione ed elezione, lui che non aveva figli, lui nato in povertà e condannato in povertà a finire i suoi giorni (...) Non fu vittima del gioco e del vizio, ma in gran parte della sua estrema generosità verso i consanguinei, caduti in dissesto, che lo trassero alla tribolazione (...). L'improvvisa scomparsa del maestro mise in trambusto i miei sentimenti. Mi aveva aspettato per studiare - lo aveva scritto - "con tutta l'anima". E invece ero rimasto solo, senza guida, senza futuro. Avevo perduto l'unica persona al mondo che durante la guerra mi aveva sorretto con l'assiduità dei suoi scritti affettuosi e della sua fede. Mi sentivo doppiamente orfano. E tentai la sorte. La sera dell'esordio, la sua anima, non c'è dubbio, era accanto a me" - Aveva "posto a fondamento del suo metodo il principio della "intenzionalità": lo sforzo cioè di realizzare con la voce il suono ideale, tesa la mente verso l'oggetto da raggiungere. Cotogni ha creato, inconsciamente, la dottrina "metafisica" del canto, studiato come ascoltazione e intenzione, ossia come metodo per raggiungere l'oggetto. "Figlio mio," supplicava, "l'Intenzione! Mi raccomando l'Intenzione!", e così dicendo gli occhi cerulei si colmavano di tenerezza e balenavano di luce, quasi volessero illuminare il cervello dell'alunno che mostrava di non capire (...). Dire "a te, o cara, amor, talora, mi guidò, furtivo e in pianto", articolando parole e suoni, senza accompagnarli col vibrante moto dell'anima, era cosa, per lui, incomprensibile (...) Nel 1902, egli cantò a Santa Cecilia il duetto del "Don Giovanni" di Mozart: "Là ci darem la mano, là mi dirai di sì", insieme ad Adelina Patti, da poco divenuta moglie del terzo marito, uno svedese meno anziano di lei. Ambedue gli artisti erano prossimi alla settantina. Ma, mentre la Patti pargoleggiava, "Zi Toto" suonava a distesa la sua campana d'oro e di bronzo. Il tempo non aveva incrinato e neppur scalfito, la campana armoniosa. E l'autore di queste pagine, che lo ebbe maestro, lo ricorda, ottantenne, cantare la cavatina del "Barbiere di Siviglia", La figlia mia, quell'angelo" della "Linda", e "Ne andrem raminghi e poveri" della "Luisa Miller", in modo tale da sbalordire e commuovere i giovani discepoli. A quale altra potrebbe paragonarsi l'eletta voce di Antonio Cotogni? Essa resta isolata come una preghiera dell'anima ascetica in mezzo al deserto, in una notte colma di stelle »


(Lauri-Volpi sul celebre baritono ottocentesco e suo maestro Antonio Cotogni - da "Incontri e scontri", ma prima su "Momento Sera", e da "Voci parallele", 1960)

La scienza sperimentale del canto nella pratica di Lauri-Volpi

Giacomo Lauri-Volpi e Claudia Muzio in "Turandot" a Buenos Aires nel 1926

LAURI-VOLPI : "LA SCIENZA DEL CANTO E' SCIENZA SPERIMENTALE. LA PRATICA CHIARISCE LA TEORIA, PRECEDENDOLA NEL TEMPO" :

«E qui [sulla respirazione diaframmatico-costale] sorge un altro contrasto: quello delle opinioni, tra loro avverse, degli scienziati della voce. Ma il cantore deve prescindere da elucubrazioni analitiche e applicare l'opinione che nasce dall'esperienza viva del canto e dalle urgenze di problemi che talvolta si presentano improvvisi alla ribalta, nel pieno svolgimento dell'azione scenica e del canto.» (pagg. 77-78)

«Suono e parola, pensiero e sentimento, immaginazione e volontà si maturano nella pratica del canto. Perché la scienza del canto è scienza sperimentale. La pratica chiarisce la teoria, precedendola nel tempo. Dagli effetti si risale alle cause, dall'analisi alla sintesi, per trovare il nesso logico tra suono, parola, pensiero. La sensazione sonora si fonda sull'imitazione e sull'esempio.» (pag. 109)

[da: Giacomo Lauri-Volpi - "Misteri della voce umana", 1957]