Antonio Cotogni, "Capo-scuola" della "Scuola romana" del bel canto e creatore, nel principio dell'INTENZIONE, della dottrina della "metafisica" del canto :
« Non ci dovrebbe essere bisogno di segnalare che nacque nei pressi della luminosa Basilica, dove giace la scultura della "Protettrice della musica": la romana Cecilia, che morendo ascoltò il canto degli angeli. Cotogni, maestro di belle sonorità a "Santa Cecilia", in via dei Greci, morì in una stanzetta, in via del Babuino, non lontano dalla sua scuola. Morì premuto da estreme necessità, e, se non fosse stato per una colletta di discepoli e ammiratori, non avrebbe trovato nemmeno un posticino, un angolo di terra, dove lasciare la sua spoglia in Campo Verano, prima del suo volo verso le stelle. Fin oltre gli ottanta anni, aveva insegnato in quel Conservatorio. E tutto era andato liscio fino al mattino in cui il vegeto e dolce vegliardo fu chiamato in Direzione per sentirsi dire che i "limiti d'età" non consentivano ch'egli restasse più al suo posto. Per via dei "limiti d'età" regolamentari, Cotogni si vide, dunque, relegato in casa con la pensioncina miserella ed offensiva di trecento lire al mese. Il "Capo-scuola" della "scuola romana" del bel canto si vide, ad un tratto, alle prese con la fame, con la morte. È ovvio che, se ci fu bisogno di quell'affrettata colletta per accompagnare il Gran Vecchio al cimitero, il trasporto non venne fatto a spese dell'Accademia di S. Cecilia, né del Municipio dell'Urbe come si è visto in altri casi (...). Cotogni, povero in canna, ebbe soltanto l'omaggio dei suoi devoti. Ed era romano, accademico di S. Cecilia, insegnante a S. Cecilia. Era una gloria vera, schietta nella storia del melodramma. Il popolo lo amava. Passando per il Corso, dopo la scuola, la gente si scopriva, lo chiamava a nome, facendo largo davanti a lui. A S. Cecilia, egli stava "numen loci". E al termine delle lezioni, i giovani gli facevano corona, e non soltanto gli studenti di canto ma di tutte le classi e materie, per salutarlo, baciargli la mano, come famiglia numerosa intorno all'avo comune. E Cotogni ogni giorno s'inteneriva, e sorrideva a tutti con quel suo viso ampio e rubicondo d'eterno fanciullo, e parlava in romanesco con l'accento cordiale, rasserenante. Così se ne andò, sommessamente, da quaggiù, il 15 ottobre del 1918, un galantuomo che fece del canto il suo pane quotidiano, la sua fede religiosa, la giustificazione del suo esistere. Titta Ruffo e Galeffi se ne servirono ad usura. Basiola, Franci, e innumerevoli altri impararono alla sua scuola ciò che avrebbe costituito il meglio delle loro qualità (...). Ma perché parlo di Cotogni? Perché fui suo alunno anch'io, per pochi mesi, prima di quel maggio 1915, il mese esplosivo della penultima guerra mondiale. Serbo gelosamente il carteggio ch'ebbi con lui dal fronte. Dopo l'azione del Podgora e la presa di Gorizia, sapendomi sano e salvo tra i "conquistatori" della Brigata Casale, mi scrive: "Caro figlio benedetto, grazie al buon Dio e alla Madonna SS.!!... Siamo tutti felici per te e t'inviamo, io e gli amici tutti, abbracci col cuore. Domanda del mio nipote Sottotenente Cotogni - 159 Regg. Fanteria. Ti benedice il tuo A. Cotogni" (...) »
Dedica del celebre baritono ed insegnante di canto Antonio Cotogni all'allievo Lauri-Volpi - Roma, 1918 |
« Quand'era vivo, si andava a Santa Cecilia ad ammirare quell'uomo che cantava brani famosi a piena voce, senza ripieghi e lenocini. A quell'età, ciò sembrava un miracolo di Dio, da lui glorificato con l'esempio di una longevità iperbolica, che altrove, fuori d'Italia, sarebbe stata magnificata come un fenomeno d'insigne vitalità, per l'onore della razza (...) Ma la sua voce non è morta, qualcosa in noi vibra che non può, né deve morire. Il suo canto scaturiva da una sorgente morale nella quale le nostre giovani anime non potevano non bagnarsi senza mondarsi. Dalle sue lezioni uscivamo tutti più ricchi di cognizioni e più nobili nei sentimenti. Allora c'era il culto degli uomini saggi (...). Lui non si stancava di ripeterci che l'arte è "sacerdozio", che "la messa si dice sull'altare e non in mezzo alla strada", che il canto esige rinunce sacrifici lavoro e studio indefessi. Molti gli credettero, in quei tempi. Ma oggi, chi gli darebbe retta? (...) Vedo ancora "Zi Toto" inseguire, con quegli occhi celesti aperti a dismisura, le immagini della sua mente quando una cosa non gli piaceva, una nota non gli "suonava", un'azione non corrispondeva alle sue convinzioni. Con il sorriso buono cercava d'inoculare il suo pensiero, modificare uno stato d'animo (...) Non era soltanto un artista. Si sentiva padre per vocazione ed elezione, lui che non aveva figli, lui nato in povertà e condannato in povertà a finire i suoi giorni (...) Non fu vittima del gioco e del vizio, ma in gran parte della sua estrema generosità verso i consanguinei, caduti in dissesto, che lo trassero alla tribolazione (...). L'improvvisa scomparsa del maestro mise in trambusto i miei sentimenti. Mi aveva aspettato per studiare - lo aveva scritto - "con tutta l'anima". E invece ero rimasto solo, senza guida, senza futuro. Avevo perduto l'unica persona al mondo che durante la guerra mi aveva sorretto con l'assiduità dei suoi scritti affettuosi e della sua fede. Mi sentivo doppiamente orfano. E tentai la sorte. La sera dell'esordio, la sua anima, non c'è dubbio, era accanto a me" - Aveva "posto a fondamento del suo metodo il principio della "intenzionalità": lo sforzo cioè di realizzare con la voce il suono ideale, tesa la mente verso l'oggetto da raggiungere. Cotogni ha creato, inconsciamente, la dottrina "metafisica" del canto, studiato come ascoltazione e intenzione, ossia come metodo per raggiungere l'oggetto. "Figlio mio," supplicava, "l'Intenzione! Mi raccomando l'Intenzione!", e così dicendo gli occhi cerulei si colmavano di tenerezza e balenavano di luce, quasi volessero illuminare il cervello dell'alunno che mostrava di non capire (...). Dire "a te, o cara, amor, talora, mi guidò, furtivo e in pianto", articolando parole e suoni, senza accompagnarli col vibrante moto dell'anima, era cosa, per lui, incomprensibile (...) Nel 1902, egli cantò a Santa Cecilia il duetto del "Don Giovanni" di Mozart: "Là ci darem la mano, là mi dirai di sì", insieme ad Adelina Patti, da poco divenuta moglie del terzo marito, uno svedese meno anziano di lei. Ambedue gli artisti erano prossimi alla settantina. Ma, mentre la Patti pargoleggiava, "Zi Toto" suonava a distesa la sua campana d'oro e di bronzo. Il tempo non aveva incrinato e neppur scalfito, la campana armoniosa. E l'autore di queste pagine, che lo ebbe maestro, lo ricorda, ottantenne, cantare la cavatina del "Barbiere di Siviglia", La figlia mia, quell'angelo" della "Linda", e "Ne andrem raminghi e poveri" della "Luisa Miller", in modo tale da sbalordire e commuovere i giovani discepoli. A quale altra potrebbe paragonarsi l'eletta voce di Antonio Cotogni? Essa resta isolata come una preghiera dell'anima ascetica in mezzo al deserto, in una notte colma di stelle »
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