lunedì 13 agosto 2018

L'importanza di acquisire una tecnica esatta, senza abusi di suoni aperti e non spalancando le note di passaggio


 


L'importanza di non basarsi sulla mera natura, facendo l'errore di abusare di suoni aperti e di spalancare le note di passaggio, e di avere idee generali chiare sul canto lirico :

« La Stagione al Metropolitan terminò con la conferma per le venture e mi ottenne la scrittura per quella estiva a Ravinia Park, presso Chicago. M'impegnai a cantare in questo Teatro l' "Elisir d'amore", "Fra Diavolo" e "Aida", opere che avrei studiate durante i tre mesi precedenti l'inizio di stagione.
Era necessario ch'io ampliassi il repertorio ad ogni costo e mi rendessi utile con la versatilità. I criteri di Gatti-Casazza mi eran noti. Sottoposi la gola a una fatica sovrumana e la mente a una tortura spietata. Al trentesimo giorno non avevo più né voce, né memoria. La voce non resisteva alla tessitura grave del ruolo di Radames. Maria mi fece comprendere amabilmente ch'io abusavo del dono naturale. "La tua stanchezza - mi diceva - non deriva dalla fatica del cantare, ma dall'errata emissione dei suoni. L'esercizio metodico, sostenuto dalla disciplina di una tecnica esatta, non potrebbe provocare l'afonia che ti affligge. La voce naturale anche la più dotata, non sarebbe sufficiente a superare neanche le difficoltà dell'atto del Nilo".
Dovetti convenire che la voce non è privilegio, che si possa abbandonare a se stesso. Mi affidai all'insegnamento della dolce consorte, con l'umiltà e il pentimento di chi troppo presto si credette sicuro delle proprie forze e rischiò di perderle per sempre. Soprattutto io avevo bisogno di idee chiare. Studiando con lei mi accorsi che le note basse del soprano corrispondono, per colore ed emissione, alle medie del tenore: quelle che nella mia voce presentavano lacune proccupanti. Provando, riprovando ed imitando, con leggerezza, parsimonia ed equilibrio, i suoni iniziarono una lenta trasformazione.

Maria divenne la mia collaboratrice assidua, la mia guida, la mia consigliera. Senza di lei le disavventure future nel "Re di Lahore", nel "Guglielmo Tell" e nel "Trovatore", di cui farò menzione a suo tempo, si sarebbero mutate in catastrofe definitiva e della mia voce non rimarrebbe, ora, neppure il ricordo. Quando ripenso alla fine immatura di gloriose voci, che la natura e Dio offrirono in dono a creature privilegiate, comprendo in tutto il significato la fortuna di possedere l'anima della mia Donna, che salvò l'inesperta, mutevole, variabile, stravagante laringe, affidatami dal capriccio della sorte. L'insegnamento di Maria impedì ch'io perdessi la fiducia nei miei mezzi e lasciassi a metà la carriera (...)
A Ravinia Park, oltre il consueto repertorio, cantai le opere da poco studiate. Nemorino, Fra Diavolo e Radames dimostrarono i risultati tangibili della disciplina vocale, che mi ero imposta. Mi stupivo come avessi potuto cantare, per quattro anni, senza pensare al suono prima di emetterlo, senza distribuire i fiati, senza coltivare le risonanze, senza legare le frasi, senza uniformarmi al complesso delle armoniosità orchestrali. Naturalmente l'attenzione molteplice e simultanea mi costava gran fatica. Non potevo in così breve tempo rimediare a tutte le deficienze, naturali o acquisite per falsi supposti, che avevano messo in serio pericolo la salute della mia voce.

Nell'inverno seguente tornai al Metropolitan e vi cantai "Andrea Chénier", "Manon" di Massenet in francese, "Carmen" in francese e "Re di Lahore" in francese, opere alternate con le altre del repertorio abituale. Io non conoscevo l'importanza e l'asprezza del "Re di Lahore". Quest'opera esige nel tenore una voce drammatica, ampia, oscura e centrale, come l' "Otello". Perché la direzione artistica del Metropolitan l'affidò a un tenore di voce estesissima, brillante, limpida non ho mai capito. Né mi so persuadere della legittimità dei motivi che l'indussero a impiegarmi, a brevi intervalli di tempo, nella stessa settimana, in un repertorio che comprendeva "Barbiere" e "Rigoletto", "Re di Lahore" e "Aida", "Traviata" e "Cavalleria", senza riguardo alla diversità dei generi e alla fragilità della voce. Con che cuore potevano esigere la critica dei giornali e la malevolenza dell'ambiente una perfetta intonazione, soavità di "legato", nobiltà di stile da un malcapitato artista, al quale senza scrupolo s'imponeva di smaniare follemente nell' "Io son disonorato" di Aida e di sospirare ventiquattro ore dopo: "Bella figlia dell'amore"? Per resistere alla fatica ed evitare il rischio dovetti giocare di astuzia e inventare trucchi, stillando note dal cervello più che dalla gola esausta. Divenni sospettoso, irrequieto, violento. Sentivo che presto avrei perduto la voce per sempre e dovevo fare economie strettissime per ritirarmi dal Teatro, almeno coi vantaggi di una discreta fortuna. La "claque", non pagata, mi zittiva ferocemente. La stampa criticava aspramente la mia povera voce martoriata. Io soffrivo dell'offesa che si recava alla giustizia. Pensavo che si sarebbe dovuto invece censurare un'Istituzione, la quale subordinava l'attività degli artisti alle esigenze del programma settimanale, e non teneva conto di quelle derivanti dai diritti naturali e tecnici dell'organo più delicato e cagionevole: la voce del tenore. Vissi allora in clausura. Divenni selvatico a forza. (...) Maria mi custodì con le sue cure di madre, di sorella e di sposa e non permise che il male prevalesse e i nemici potessero più della sua bontà serena e fidente.
Compii la stagione con onore. Seppi temporeggiare e vincere, poiché la mia collaborazione risultò di grande utilità alla Direzione del Metropolitan, per lo sviluppo e l'equilibrio del complesso programma. Mi rassegnai all'ineluttabile forza, che costituiva l'essenza di una Istituzione mirante al complesso artistico, non all'incolumità vocale dei singoli. (...)

Amante dell'indagine, mi son fatto lecito di esaminare le caratteristiche di cantori rappresentativi coll'unico scopo di prevenire i giovani e metterli in guardia dagli smarrimenti, di cui sono stato vittima io stesso per oltre un decennio della mia carriera. Esordendo credetti alla continuità di un dono naturale perenne; alle prime schermaglie colle difficoltà credetti nel verbo rivelato di cantanti illustri, di cui non compresi i reali, intimi pregi e imitai i difetti esteriori: quindi l'equivoco di considerare ideali le inflessioni gutturali di Tizio, le nasalità di Caio, le emissioni mistificate di Sempronio. Incertezze, disuguaglianze, false intonazioni, dubbiosi attacchi, suoni ibridi furono il risultato del tremendo malinteso, che portò a varie riprese la mia voce sul limitare della fine. Fra le molte vie, che mi vidi innanzi aperte, frequentai tutte fuorchè la dritta, e già avevo perduto ogni speranza quando apparve la mia Diletta, "maestra e donna", che pazientemente superò le prevenzioni dell'orgoglio fondato su di una occasionale, improvvisa celebrità. Anch'io scambiai il falsetto per la mezzavoce ed il misto, abusai di suoni aperti, spalancai note di passaggio, camuffai le deficienze colle sonorità nasali, sostenni con spasimi e contrazioni gutturali i suoni vacillanti e vidi ogni giorno di più diminuire la resistenza della respirazione e aumentare lo sfaldamento dell'organismo vocale come per lo sviluppo di un morbo, che non perdona. La salvezza mi venne dalla devota Compagna, che mi guidò con intelletto d'amore e non si fece abbagliare dalla luce equivoca di una gloria effimera. Nei più recenti anni acquistai la certezza di idee chiare, e compresi i miei difetti e gli altrui che oggi addito, perchè se ne guardino, ai devoti del canto, tratti per inesperienza all'imitazione d'esteriorità. (...) L'esperienza di me medesimo, che pubblicamente confesso, valga ad insegnare che la professione del canto è la più ardua ed espone alle più torturanti delusioni i faciloni e gli ingenui. Fra i direttori d'orchestra, versati nello studio critico della voce, il maestro Gino Marinuzzi, sotto la cui bacchetta cantai varie stagioni, mi parve il più attento e scrupoloso. Egli accompagna l'artista, incline al panico ed esposto alle insidie della partitura e della fama, coll'esperienza psicologica e l'acume tecnico di chi allo strumento della voce umana ha dedicato le attenzioni che i direttori sogliono concedere solo agli strumenti della loro orchestra. »

(da: G. Lauri Volpi - "L'equivoco", 1938)


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