La guerra dei tenori, ossia canto “baritonale” o vero canto tenorile per il Rodolfo della “Bohème” di Puccini? Questo il saggio giudizio di Lauri-Volpi :
Di recente, alla Scala, è scoppiata quella che la stampa si è divertita a chiamare “La guerra dei tenori” forse ricordando quella guerra artistica che due secoli addietro scoppiò a Parigi dopo la morte del Re Sole, colui che nominò sovrintendente della “Musica Reale” G. B. Lulli (…)
I tenori odierni, indulgendo al canto spianato, rifiutano disinvoltamente la tonalità scritta e prescritta dai Compositori d’opera, al fine di liberare la voce da qualunque impaccio di tessitura ardita e dare sfogo ai suoni centrali, carnosi e appariscenti. Se altri tenori, che dispongono delle due ottave, intendono rispettare la musica qual è concepita nel ritmo e nel colore delle note e dimostrano di poter salire con spontaneità e sicurezza all’alta regione dei suoni acuti con voce raccolta nobile e omogenea in tutta la gamma, si vedono avversati o disanimati o esautorati dai baldanzosi sostenitori di quelli.
I tenori odierni, indulgendo al canto spianato, rifiutano disinvoltamente la tonalità scritta e prescritta dai Compositori d’opera, al fine di liberare la voce da qualunque impaccio di tessitura ardita e dare sfogo ai suoni centrali, carnosi e appariscenti. Se altri tenori, che dispongono delle due ottave, intendono rispettare la musica qual è concepita nel ritmo e nel colore delle note e dimostrano di poter salire con spontaneità e sicurezza all’alta regione dei suoni acuti con voce raccolta nobile e omogenea in tutta la gamma, si vedono avversati o disanimati o esautorati dai baldanzosi sostenitori di quelli.
I fieri “fans” non si accorgono, o fingono di non accorgersi, che quel modo di cantare, a sfascio e a vanvera, porta i loro protetti a sospendere assai spesso le recite per mancanza di fiato o a spezzar le note nel momento culminante di una romanza, benché abbassata di tono. Non si rendono conto che incoraggiando un simile metodo di canto che, per l’evidenza degli infortuni frequenti, va perentoriamente ripudiato, si fanno complici di una decadenza prematura e incoraggiano imitazioni deleterie. I giovani aspiranti alla carriera lirica si sentono istintivamente propensi ad appropriarsi meno dei pregi che delle deficienze degli artisti “arrivati”. E’ un contagio che ha fatto vittime famose e che, qui, non è il caso di ricordare.
Or è accaduto che per avere, lo scrivente, plaudito alla scelta di Karajan (che designò per la parte di Rodolfo nella Bohème un tenore rispettoso delle tonalità e devoto alla scuola classica del canto, sfidando le minacce dei “fans” dell’altro tenore), si è visto arrivare una lettera anonima di protesta. L’anonimo – o gli anonimi – si sente in dovere di raccomandare “vegliardo” che cura questa rubrica, di lasciare che gli altri cantino come loro pare e piace, di “calmarsi”, di non intervenire in assunti che, ormai “non lo riguardano”.
Già, certi scandali riguardano i buffoncelli che li organizzano a tutto danno dei nostri teatri, dell’Arte, di una tradizione rispettabile, non di certo il “vegliardo” che si batte per salvare il salvabile, indicando a chi glielo richiede, il modo di preservare da cadute irreparabili quanti esordiscono in una carriera rischiosa, spesso angosciosa, se non illusoria, votata, in ogni caso, a sacrifici e ad eroiche rinunce.
Non riguardano chi ha consumato decine d’anni di vita nel culto di un ideale d’arte che nobilita ed eleva lo spirito, nello studio di una tecnica rivelatasi ineccepibile. Non riguardano chi ha pure il dovere di chiarire le idee dei profani in materia, e far conoscere dove si trovi la ragione e il torto a quanti hanno domandato un parere spassionato rispetto alla polemica scaligera. Alla quale, del resto, tutti i giornali hanno fatto eco rumorosa e spesso stonata. Il Maestro Karajan, nonostante gli impegni assunti dalla Scala con la “voce ripudiata” ha tenuto duro. E ha fatto il suo dovere. Il “vegliardo” può portare addosso gli anni Matusalemme e nessuno potrà vietargli di esprimere un giudizio schietto, assolutamente immune da prevenzioni e partito preso. Egli ammira ed elogia la “voce ripudiata” in opere che le si addicano e le giovino, ma non certo in quelle in cui essa non riesce ad accostarsi allo spirito e alla natura vocale del personaggio – come quello di Rodolfo – che esige snellezza, eleganza, sveltezza nell’emissione del suono, senza mai calcare la nota passionale e abbandonarsi ad un verismo eccessivo che l’abbassamento della tonalità favorisce con l’aumento di volume a scapito del timbro.
“Rodolfo” è un poetino avvezzo a saltare i pasti, a vivere in lieta e spensierata povertà. Una voce ampia, troppo calda e ben pasciuta non s’addice al suo stile, al suo slancio verso chimere e sogni e castelli in aria. L’anonimo dunque pensi lui a calmarsi e lasci che ai giovani sia rischiarato il cammino che l’esperienza annosa, ma vigile, può indicare senza sottintesi e rispetti umani. Colui che si occulta sotto l’ombra dell’anonimato, non ha il coraggio delle sue opinioni e teme le contrarie.
E così è scoppiata la “guerra dei tenori” che ho detto, ricorda, in certo modo la guerra dei buffoni di due secoli addietro. Per la “Scuola francese”, allora, si schierarono persino il Re e, nientemeno, Voltaire; per la “Scuola italiana”, la Regina e Rousseau: razionalismo contro naturalismo; la declamazione “criarde”, o urlatrice, francese contro il virtuosismo vocale italiano. Per l’attuale “guerra dei tenori”, sono scesi in armi critici, cantanti, giornalisti, direttori d’orchestra, maestri di canto etc. Il critico di un rotocalco diffusissimo ha rimproverato alla “voce ripudiata”, ch’era puramente “lirica”, di essersi guastata nel repertorio lirico spinto” rinunciando alla correttezza e alla sicurezza della fonazione. Perché allora non avrebbe dovuto dire la sua chi, fra tutti coloro, è l’unico che abbia cantato l’intero repertorio operistico e ha sbattuto il naso contro difficoltà tecniche che sembravano invalicabili? Sì, proprio io, pagai di persona quando per le faticose recite di G. Tell, eseguite in tono – dico in tono – rischiai di perdere la voce e rimasi rauco e sfiancato per più giorni.
Fu la mia Maestra – dico mia Moglie – a fornirmi le grucce per muovere, dopo un silenzio prolungato, i primi passi sul pentagramma dapprima vocalizzando sul soffio, successivamente, studiando la soavissima Sonnambula. A poco a poco, la voce guarì, riacquistò la padronanza delle due ottave, fu pronta a ripresentarsi al pubblico del “Metropolitan di New York”. La voce di “Manrico” riappariva in veste dimessa: quella di “Elvino”. Incredulità dei più, al primo annuncio. Ma la realtà fu rivelatrice. Quella recita, diretta dal M.o Serafin, è rimasta impressa nella memoria di molti abbonati, alcuni dei quali me ne scrivono ancora oggi. Dunque, la “guerra dei tenori” potrebbe sortire un magico risultato: riportare all’innocenza iniziale la voce smarrita; il figliol prodigo, alla casa del padre. La “guerra dei buffoni” portò alla riforma del canto, iniziata dal Gluck, con l’adeguare la sensazione all’idea, il suono al concetto, la declamazione alla modulazione del suono nel sentimento. Nelle opere di Bellini, il connubio parola-suono raggiunse, specie nei recitativi, altissimo valore musicale, con eloquente risalto nella “parola scenica”.
Qualcuno ha tirato in ballo Caruso, al quale Puccini consentì l’abbassamento di tono nella Bohème. Ma Caruso era Caruso. In quel momento spadroneggiava nella casa discografica più potente e la sua volontà era legge. Nessun tenore ha mai raggiunto la sua quotazione commerciale. Puccini avrebbe fatto qualunque concessione al trionfante tenore. Basta leggere il carteggio pucciniano per convincersi che Puccini, umile e remissivo, ostinatamente avversato dalla critica ufficiale, faceva di tutto per giovarsi anche della collaborazione di cantanti assai meno redditizi e rinomati del cantore napoletano.
“Sic rebus stantibus”, sarebbe ora che i fans non si affannino a spedire lettere anonime. Si convincano che il fanatismo inconsulto non giova punto ai loro idoli. Anzi nuoce a questi l’incoraggiamento a percorrere una via sbagliata. E chi dice che è sbagliata è uno del mestiere, il quale si rifà alla ciceroniana riflessione: “In generale la maggior parte degli uomini non può capire che cosa occorre alla perfezione. Così avviene anche nelle arti, in cui i profani ammirano e lodano ciò che colpisce gli ignoranti, che non sanno scoprire i difetti. Ma quando sono illuminati dagli esperti cambiano facilmente parere.”
(da : Giacomo Lauri-Volpi - “Incontri e scontri”, 1971)
Or è accaduto che per avere, lo scrivente, plaudito alla scelta di Karajan (che designò per la parte di Rodolfo nella Bohème un tenore rispettoso delle tonalità e devoto alla scuola classica del canto, sfidando le minacce dei “fans” dell’altro tenore), si è visto arrivare una lettera anonima di protesta. L’anonimo – o gli anonimi – si sente in dovere di raccomandare “vegliardo” che cura questa rubrica, di lasciare che gli altri cantino come loro pare e piace, di “calmarsi”, di non intervenire in assunti che, ormai “non lo riguardano”.
Già, certi scandali riguardano i buffoncelli che li organizzano a tutto danno dei nostri teatri, dell’Arte, di una tradizione rispettabile, non di certo il “vegliardo” che si batte per salvare il salvabile, indicando a chi glielo richiede, il modo di preservare da cadute irreparabili quanti esordiscono in una carriera rischiosa, spesso angosciosa, se non illusoria, votata, in ogni caso, a sacrifici e ad eroiche rinunce.
Non riguardano chi ha consumato decine d’anni di vita nel culto di un ideale d’arte che nobilita ed eleva lo spirito, nello studio di una tecnica rivelatasi ineccepibile. Non riguardano chi ha pure il dovere di chiarire le idee dei profani in materia, e far conoscere dove si trovi la ragione e il torto a quanti hanno domandato un parere spassionato rispetto alla polemica scaligera. Alla quale, del resto, tutti i giornali hanno fatto eco rumorosa e spesso stonata. Il Maestro Karajan, nonostante gli impegni assunti dalla Scala con la “voce ripudiata” ha tenuto duro. E ha fatto il suo dovere. Il “vegliardo” può portare addosso gli anni Matusalemme e nessuno potrà vietargli di esprimere un giudizio schietto, assolutamente immune da prevenzioni e partito preso. Egli ammira ed elogia la “voce ripudiata” in opere che le si addicano e le giovino, ma non certo in quelle in cui essa non riesce ad accostarsi allo spirito e alla natura vocale del personaggio – come quello di Rodolfo – che esige snellezza, eleganza, sveltezza nell’emissione del suono, senza mai calcare la nota passionale e abbandonarsi ad un verismo eccessivo che l’abbassamento della tonalità favorisce con l’aumento di volume a scapito del timbro.
“Rodolfo” è un poetino avvezzo a saltare i pasti, a vivere in lieta e spensierata povertà. Una voce ampia, troppo calda e ben pasciuta non s’addice al suo stile, al suo slancio verso chimere e sogni e castelli in aria. L’anonimo dunque pensi lui a calmarsi e lasci che ai giovani sia rischiarato il cammino che l’esperienza annosa, ma vigile, può indicare senza sottintesi e rispetti umani. Colui che si occulta sotto l’ombra dell’anonimato, non ha il coraggio delle sue opinioni e teme le contrarie.
E così è scoppiata la “guerra dei tenori” che ho detto, ricorda, in certo modo la guerra dei buffoni di due secoli addietro. Per la “Scuola francese”, allora, si schierarono persino il Re e, nientemeno, Voltaire; per la “Scuola italiana”, la Regina e Rousseau: razionalismo contro naturalismo; la declamazione “criarde”, o urlatrice, francese contro il virtuosismo vocale italiano. Per l’attuale “guerra dei tenori”, sono scesi in armi critici, cantanti, giornalisti, direttori d’orchestra, maestri di canto etc. Il critico di un rotocalco diffusissimo ha rimproverato alla “voce ripudiata”, ch’era puramente “lirica”, di essersi guastata nel repertorio lirico spinto” rinunciando alla correttezza e alla sicurezza della fonazione. Perché allora non avrebbe dovuto dire la sua chi, fra tutti coloro, è l’unico che abbia cantato l’intero repertorio operistico e ha sbattuto il naso contro difficoltà tecniche che sembravano invalicabili? Sì, proprio io, pagai di persona quando per le faticose recite di G. Tell, eseguite in tono – dico in tono – rischiai di perdere la voce e rimasi rauco e sfiancato per più giorni.
Fu la mia Maestra – dico mia Moglie – a fornirmi le grucce per muovere, dopo un silenzio prolungato, i primi passi sul pentagramma dapprima vocalizzando sul soffio, successivamente, studiando la soavissima Sonnambula. A poco a poco, la voce guarì, riacquistò la padronanza delle due ottave, fu pronta a ripresentarsi al pubblico del “Metropolitan di New York”. La voce di “Manrico” riappariva in veste dimessa: quella di “Elvino”. Incredulità dei più, al primo annuncio. Ma la realtà fu rivelatrice. Quella recita, diretta dal M.o Serafin, è rimasta impressa nella memoria di molti abbonati, alcuni dei quali me ne scrivono ancora oggi. Dunque, la “guerra dei tenori” potrebbe sortire un magico risultato: riportare all’innocenza iniziale la voce smarrita; il figliol prodigo, alla casa del padre. La “guerra dei buffoni” portò alla riforma del canto, iniziata dal Gluck, con l’adeguare la sensazione all’idea, il suono al concetto, la declamazione alla modulazione del suono nel sentimento. Nelle opere di Bellini, il connubio parola-suono raggiunse, specie nei recitativi, altissimo valore musicale, con eloquente risalto nella “parola scenica”.
Qualcuno ha tirato in ballo Caruso, al quale Puccini consentì l’abbassamento di tono nella Bohème. Ma Caruso era Caruso. In quel momento spadroneggiava nella casa discografica più potente e la sua volontà era legge. Nessun tenore ha mai raggiunto la sua quotazione commerciale. Puccini avrebbe fatto qualunque concessione al trionfante tenore. Basta leggere il carteggio pucciniano per convincersi che Puccini, umile e remissivo, ostinatamente avversato dalla critica ufficiale, faceva di tutto per giovarsi anche della collaborazione di cantanti assai meno redditizi e rinomati del cantore napoletano.
“Sic rebus stantibus”, sarebbe ora che i fans non si affannino a spedire lettere anonime. Si convincano che il fanatismo inconsulto non giova punto ai loro idoli. Anzi nuoce a questi l’incoraggiamento a percorrere una via sbagliata. E chi dice che è sbagliata è uno del mestiere, il quale si rifà alla ciceroniana riflessione: “In generale la maggior parte degli uomini non può capire che cosa occorre alla perfezione. Così avviene anche nelle arti, in cui i profani ammirano e lodano ciò che colpisce gli ignoranti, che non sanno scoprire i difetti. Ma quando sono illuminati dagli esperti cambiano facilmente parere.”
(da : Giacomo Lauri-Volpi - “Incontri e scontri”, 1971)
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