La “mezza-voce” di seta pura di Bonci, l’ultimo dei belcantisti, che “salva bronchi e polmoni”, nella testimonianza di Lauri-Volpi :
Nel febbraio dell’anno scorso, è scaduto l’anniversario della primissima recita di un “Ballo in maschera” che, come il “Trovatore”, ebbe il suo trionfale battesimo all’Apollo di Roma, precisamente il 17 febbraio 1859. Per noi romani, ha un duplice significato che consiste nell’aver Roma compreso il genio verdiano fin dalle prime recite delle due opere, che danno un’idea dell’evoluzione dell’autore verso l’ultima definitiva forma di espressione melodrammatica, raggiunta nell’ “Otello” e nel “Falstaff”.
In cento anni, diversi tenori si cimentarono nella parte scabrosa del protagonista di “Ballo in maschera”, ma nessuno, al pari di Alessandro Bonci, vi ha lasciato una impronta personale.
E chi era A. Bonci? Di lui non parlano le grosse enciclopedie che invece segnalano l’esistenza di altri artisti assai meno notevoli e rappresentativi. La nuova generazione non ha avuto sentore del cantante, che è morto appena 18 anni fa. Ultimo modello di una tradizione che si sostenne per oltre un secolo, grazie al virtuosismo vocale e alla serenità lineare nel canto e rivale di Fernando de Lucia, Bonci non volle indulgere, come questi, all’incipiente canto verista, e farsi anello di transizione. Con A. Bonci termina l’era del “bel canto”: uno stile, un modo di espressione fonetica e verbale che ebbe il capostipite in Emanuele Garcia, padre della Malibran, eredi: Nourrit, Rubini, Mario de Candia, Gayarre, Angelo Masini. Con Bonci, la grazia confina con la preziosità e, talvolta, con la leziosità, specie negli ultimi tempi, in cui egli abusava di “acciaccature” quasi per assicurarsi dell’appoggio delle note acute. Ma quale dizione, quale schiettezza e forbitezza di fraseggio!
La sua statura era da annoverarsi tra le minime. (…) Nel 1896 esordendo al Regio di Parma col “Falstaff”, i terribili e faziosi conterranei di Verdi non si scandalizzarono. E quando il “miniaturista” ebbe eseguito “Bocca baciata non perde ventura, ma si rinnova come fa la luna”, con la “u” di luna, presa a mezza voce, rinforzata e poi ridotta a puro, lucente filo di suono fino all’ultimo soffio, i parmigiani decretarono al nuovo abitatore d’Olimpo gli onori del trionfo.
E’ evidente che a Bonci quella sua statura al di sotto della media, impediva di rendere vivo un personaggio come il “Faust” o come il puritano “Arturo”, armati di spada e cappa. Ma l’arma del sorriso e la sapienza tecnica facevano di “Salve dimora” e del “A te, o cara” un ricamo di melodia in cui non si sapeva se più ammirare la bellezza della composizione o la delicatezza e la giustezza dei suoni emessi dall’esecutore.
Negli ultimi tempi, Bonci, per adattarsi al nuovo repertorio, volle cimentarsi nella “Tosca”. Il rivoluzionario “Cavaradossi” che “muore disperato”, non guadagnò granché dall’esibizione del nuovo interprete. L’esito della prova lo indusse a tornare all’ovile. E tentò l’avventura di un “Ballo in maschera”. (…)
Verdi, di certo, non avrebbe supposto che un giorno, il Fenton del “Falstaff”, da lui udito al Regio di Parma, si sarebbe armato di spada e di autorità per divenire nientemeno che il Conte Riccardo, governatore di Boston. Andò a sentirlo il 21 maggio 1898, e scrisse “al bravo tenore Bonci” esprimendo “graditissima sorpresa” per la risatina inserita nella pausa del brano: “E’ scherzo od è follia?”, e ne riconosceva all’artista “la unica privativa e specialità”. A nessun altro esecutore prima di Bonci, era venuto in mente quell’intercalare della brillante cascatina di note, onde il “cesellatore” aveva infiorato il suo pezzo per fare “sensazione”.
I successivi esecutori, compreso chi scrive, non riuscirono a far dimenticare il delizioso “usignolo” di Cesena. La loro risatina rivelava l’intenzione degli imitatori e rinsaldava il ricordo di chi deteneva la “privativa e la specialità” delle notine scintillanti. Infatti, mai più del concertato fu richiesta la replica che il pubblico esigeva dalla voce di A. Bonci. E Verdi se la godeva, compiaciuto.
Nel febbraio dell’anno scorso, è scaduto l’anniversario della primissima recita di un “Ballo in maschera” che, come il “Trovatore”, ebbe il suo trionfale battesimo all’Apollo di Roma, precisamente il 17 febbraio 1859. Per noi romani, ha un duplice significato che consiste nell’aver Roma compreso il genio verdiano fin dalle prime recite delle due opere, che danno un’idea dell’evoluzione dell’autore verso l’ultima definitiva forma di espressione melodrammatica, raggiunta nell’ “Otello” e nel “Falstaff”.
In cento anni, diversi tenori si cimentarono nella parte scabrosa del protagonista di “Ballo in maschera”, ma nessuno, al pari di Alessandro Bonci, vi ha lasciato una impronta personale.
E chi era A. Bonci? Di lui non parlano le grosse enciclopedie che invece segnalano l’esistenza di altri artisti assai meno notevoli e rappresentativi. La nuova generazione non ha avuto sentore del cantante, che è morto appena 18 anni fa. Ultimo modello di una tradizione che si sostenne per oltre un secolo, grazie al virtuosismo vocale e alla serenità lineare nel canto e rivale di Fernando de Lucia, Bonci non volle indulgere, come questi, all’incipiente canto verista, e farsi anello di transizione. Con A. Bonci termina l’era del “bel canto”: uno stile, un modo di espressione fonetica e verbale che ebbe il capostipite in Emanuele Garcia, padre della Malibran, eredi: Nourrit, Rubini, Mario de Candia, Gayarre, Angelo Masini. Con Bonci, la grazia confina con la preziosità e, talvolta, con la leziosità, specie negli ultimi tempi, in cui egli abusava di “acciaccature” quasi per assicurarsi dell’appoggio delle note acute. Ma quale dizione, quale schiettezza e forbitezza di fraseggio!
La sua statura era da annoverarsi tra le minime. (…) Nel 1896 esordendo al Regio di Parma col “Falstaff”, i terribili e faziosi conterranei di Verdi non si scandalizzarono. E quando il “miniaturista” ebbe eseguito “Bocca baciata non perde ventura, ma si rinnova come fa la luna”, con la “u” di luna, presa a mezza voce, rinforzata e poi ridotta a puro, lucente filo di suono fino all’ultimo soffio, i parmigiani decretarono al nuovo abitatore d’Olimpo gli onori del trionfo.
E’ evidente che a Bonci quella sua statura al di sotto della media, impediva di rendere vivo un personaggio come il “Faust” o come il puritano “Arturo”, armati di spada e cappa. Ma l’arma del sorriso e la sapienza tecnica facevano di “Salve dimora” e del “A te, o cara” un ricamo di melodia in cui non si sapeva se più ammirare la bellezza della composizione o la delicatezza e la giustezza dei suoni emessi dall’esecutore.
Negli ultimi tempi, Bonci, per adattarsi al nuovo repertorio, volle cimentarsi nella “Tosca”. Il rivoluzionario “Cavaradossi” che “muore disperato”, non guadagnò granché dall’esibizione del nuovo interprete. L’esito della prova lo indusse a tornare all’ovile. E tentò l’avventura di un “Ballo in maschera”. (…)
Verdi, di certo, non avrebbe supposto che un giorno, il Fenton del “Falstaff”, da lui udito al Regio di Parma, si sarebbe armato di spada e di autorità per divenire nientemeno che il Conte Riccardo, governatore di Boston. Andò a sentirlo il 21 maggio 1898, e scrisse “al bravo tenore Bonci” esprimendo “graditissima sorpresa” per la risatina inserita nella pausa del brano: “E’ scherzo od è follia?”, e ne riconosceva all’artista “la unica privativa e specialità”. A nessun altro esecutore prima di Bonci, era venuto in mente quell’intercalare della brillante cascatina di note, onde il “cesellatore” aveva infiorato il suo pezzo per fare “sensazione”.
I successivi esecutori, compreso chi scrive, non riuscirono a far dimenticare il delizioso “usignolo” di Cesena. La loro risatina rivelava l’intenzione degli imitatori e rinsaldava il ricordo di chi deteneva la “privativa e la specialità” delle notine scintillanti. Infatti, mai più del concertato fu richiesta la replica che il pubblico esigeva dalla voce di A. Bonci. E Verdi se la godeva, compiaciuto.
Con ciò il lettore può farsi un’idea di questo nostro artista che baldamente teneva testa al coetaneo napoletano, ovunque trionfante con la passionalità del canto e il denso, sensuale colorito della voce. Due cantanti affatto opposti, inconciliabili. (…)
Bonci e Caruso, proprio perché opposti, destavano curiosità e facevano interesse. Il pubblico accorreva ad ascoltarli, a cogliere le differenze di due epoche nel loro canto. Poi venne la fila incolore delle voci fabbricate a serie, a immagine di un tipo unico. Donde la decadenza del canto che oggi tutti si danno a lamentare, senza correre ai ripari, a stabilire idee chiare per un ritorno alla sana fonazione, di cui A. Bonci fu coraggioso campione in scena e maestro nella scuola.
Egli stesso, in seguito al mio esordio, mi avvertì di star lontano dai mali passi, un giorno che mi presentai a lui sotto gli archi dell’Esedra, in Roma. Elogiò il mio materiale vocale ma non approvò in tutto la mia tecnica. Quale tecnica? Io venivo dalla trincea e cantavo con l’innocenza dell’ignoranza. Egli propugnava vivacemente la necessità di attenersi alla “mezza voce” e non imitare coloro che abusavano dei suoni falsi. “Il falso” – diceva – “è cotone. La mezza-voce, è seta pura, e salva bronchi e polmoni.”
Lo ascoltai con emozione e convinzione. Di lì a pochi anni, ci rivedemmo al “Central Park” di New York, davanti all’ “Hotel Majestic”, dov’egli aveva il suo studio ed insegnava. Io stavo al Metropolitan già da sei anni, e il mio repertorio si era esteso dal Rigoletto al Trovatore. Gli dissi che avevo fatto tesoro dei suoi ammonimenti. Mi ringraziò, confuso. Ancora lo vedo il “piccolo” grande artefice dei suoni. Aveva sempre il bel sorriso sulle labbra argute, ormai sbiadite. La temperatura di New York non era propizia alla sua salute. Ma, la necessità!... Ecco un principe del canto, l’ultimo rampollo di una dinastia, affermatasi gloriosamente in uno dei più bei secoli della storia, aggirarsi come uno qualunque nel tumultuante caos della metropoli tentacolare.
(da: Giacomo Lauri Volpi - "Incontri e scontri", 1971)
Bonci e Caruso, proprio perché opposti, destavano curiosità e facevano interesse. Il pubblico accorreva ad ascoltarli, a cogliere le differenze di due epoche nel loro canto. Poi venne la fila incolore delle voci fabbricate a serie, a immagine di un tipo unico. Donde la decadenza del canto che oggi tutti si danno a lamentare, senza correre ai ripari, a stabilire idee chiare per un ritorno alla sana fonazione, di cui A. Bonci fu coraggioso campione in scena e maestro nella scuola.
Egli stesso, in seguito al mio esordio, mi avvertì di star lontano dai mali passi, un giorno che mi presentai a lui sotto gli archi dell’Esedra, in Roma. Elogiò il mio materiale vocale ma non approvò in tutto la mia tecnica. Quale tecnica? Io venivo dalla trincea e cantavo con l’innocenza dell’ignoranza. Egli propugnava vivacemente la necessità di attenersi alla “mezza voce” e non imitare coloro che abusavano dei suoni falsi. “Il falso” – diceva – “è cotone. La mezza-voce, è seta pura, e salva bronchi e polmoni.”
Lo ascoltai con emozione e convinzione. Di lì a pochi anni, ci rivedemmo al “Central Park” di New York, davanti all’ “Hotel Majestic”, dov’egli aveva il suo studio ed insegnava. Io stavo al Metropolitan già da sei anni, e il mio repertorio si era esteso dal Rigoletto al Trovatore. Gli dissi che avevo fatto tesoro dei suoi ammonimenti. Mi ringraziò, confuso. Ancora lo vedo il “piccolo” grande artefice dei suoni. Aveva sempre il bel sorriso sulle labbra argute, ormai sbiadite. La temperatura di New York non era propizia alla sua salute. Ma, la necessità!... Ecco un principe del canto, l’ultimo rampollo di una dinastia, affermatasi gloriosamente in uno dei più bei secoli della storia, aggirarsi come uno qualunque nel tumultuante caos della metropoli tentacolare.
(da: Giacomo Lauri Volpi - "Incontri e scontri", 1971)
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