L'importanza fondamentale di "...supplire al volume inesistente delle regioni centrali e gravi, l'accento, la dizione che risparmia fiato e mantiene e sviluppa le articolazioni orali e proietta il suono nello spazio", nel consiglio di Lauri-Volpi :
Lauri Volpi, Caniglia e Silveri, diretti dal M° Santini, a cent'anni dalla prima, provano "Luisa Miller" che aprirà la Stagione del Teatro dell'Opera di Roma l'8 dicembre 1949 |
Diario di Lauri Volpi, 20 giugno 1949 :
« Siamo stati a colazione con Queena Mario. (...) Parla in italiano con accento esotico, ma sempre guidato da un pensiero netto. (...) E' stata di una sincerità sconcertante. M'aveva sentito l'ultima volta nel 1933. Quando si è trattato di andare al concerto, lei ha provato, l'altra sera, un serio imbarazzo. "Quest'uomo - si è detto - cantò tanti anni al Metropolitan con il solo registro acuto, e suppliva alle lacune del centro e del basso con un suo modo di cantare che nessuno capiva. Adesso, nella parabola discendente, dovrebbe aver perduto anche gli acuti. Quale doloroso spettacolo mi si presenterà questa sera? Come felicitare poi il collega? Dovrei mentire". Con questa spina nella mente, ella era andata al concerto. Ma dall'apprensione era passata alla sopresa, dalla sorpresa allo sbalordimento per la rivelazione di un mistero inaudito. Là sopra, su quella ribalta, cantava un essere pieno di vitalità, trasfusa in tutte le sonorità di una gamma omogenea, franca, tersa, dalle note più gravi alle acute. Che è mai successo? Che ha fatto questo uomo? Eppure il tempo non è un'opinione: gli anni passano per tutti, e trenta anni di attività ininterrotta bastano a sfaldare qualunque organo. La Queena non capiva. Voleva sapere in che consistesse il mistero di quella realtà indubbia, cui rendevano plauso non due, ma migliaia di mani. Il fenomeno esisteva ed era là palpitante, percepibile, per quanto assurdo. Dunque, l'assurdo esiste. L'americanina, che insegna da venti anni il canto, sembrava assolutamente una profana, estranea alla spiegazione del fenomeno: " Come ha fatto? Che cosa fa? Mi spieghi, 'please' ".
Nulla ho fatto che non sia logico. Incominciò trent'anni fa, l'avventura della vocina di contraltino, che non trovava risonanze sicure prima d'arrivare alle note di passaggio. Se i dirigenti del Metropolitan avessero avuto coscienza vocale, non avrebbero dovuto permetterle di uscire dal repertorio acuto: "Puritani", "Rigoletto", "Don Pasquale", "Favorita", "Sonnambula". Per contro, il solenne Gatti-Casazza e l'elegiaco Serafin si accordarono per fare di quella vocina una funambula. Oggi "Rigoletto", posdomani "Norma"; la settimana successiva "Barbiere" e dopo due giorni, il "Re di Lahore" o "Giovanni Gallurese". Qualunque altra voce si sarebbe smarrita. Io capii che all'astuzia doveva opporsi l'astuzia: supplire al volume inesistente delle regioni centrali e gravi, l'accento, la dizione che risparmia fiato e mantiene e sviluppa le articolazioni orali e proietta il suono nello spazio. L'espediente, suggerito dall'istinto di preservazione, salvò la situazione e conservò la spontaneità degli acuti, in attesa che l'organismo si maturasse e, con esso, la voce. Temporeggiando, mi servii del borioso Metropolitan come di un teatrino sperimentale di provincia con la rimunerazione dai mille ai millecinquecento dollari a recita. Fatto unico nella storia del teatro lirico. E intanto, tornavo in Europa, conquistando allori ed alte quotazioni con l'invulnerabile spontaneità vocale, la disinvoltura scenica, la chiarezza della parola e l'incisività dell'accento. Altrimenti, come avrei potuto emergere in un momento in cui trionfava tra tutte la intensa, calda voce di Caruso e intorno ad essa uno stuolo di voci eroiche, romantiche, cerebrali, passionali, classiche, in mezzo alle quali la mia - se non avesse avuto virtù non spregevoli - sarebbe passata come un'ombra, un sussurro? Allora cantavano Zenatello, robusta voce; Bassi, voce di scatto e squillo; Grassi, voce audace e incisiva; Pertile, saggio dicitore; Anselmi, languido ed elegante; Schipa, furbissimo stilizzatore; Paoli, fenomeno vocale; De Muro Bernardo, colonna di suono fiammeggiante; il mistico Gigli, voce elegiaca o turgida; il corretto Merli, ugola grassa; Fleta, il magnifico; Lazaro, l'estroso; Thill, aitante ed elegante; Tauber, intelligente e squisito; Martinelli, eroico e massiccio; Bonci, tecnicista sfavillante. Tra Caruso e Bonci - e una pleiade di cantori per tutti i gusti e gli stili - che cosa avrei dovuto fare io, che venivo, incauto ed ignaro, dalla trincea? Ebbene: l'esordio fu una rivelazione, di cui tutta Roma parlò; di lì a un anno, la rivelazione al Dal Verme di Milano col "Rigoletto", e tutta l'Italia ne parlò. Dopo di che, i successi di Bologna e di Madrid. Quindi il Colon, la Scala, il Metropolitan. Una voce, per due terzi vuota, era dunque arrivata in primissima fila, lasciando alle spalle gran parte di quei cantori, dotati sino all'inverosimile. Queena Mario, non ha capito che i più, quando imparano a cantare, hanno già perduto il coraggio di cantare. Io, invece, comincio adesso ad aver tutta la mia voce, dopo aver esplorato tutti i fenomeni della eufonia e della fonetica biologica, e maturato organi, tessuti, cervello e mente. Dicevo che nulla ho fatto che non sia alla radice della logica. E della morale. Questa voce non si estinguerà senza dar luce e vibrar suoni fino all'ultimo, inevitabilmente. Questo è il così detto 'caso' Lauri-Volpi, sotto uno dei suoi molteplici aspetti meno conosciuti, ma più reali. »
(da: G. Lauri Volpi - “A viso aperto”, Corbaccio, dall’Oglio editore, 1953)
« Siamo stati a colazione con Queena Mario. (...) Parla in italiano con accento esotico, ma sempre guidato da un pensiero netto. (...) E' stata di una sincerità sconcertante. M'aveva sentito l'ultima volta nel 1933. Quando si è trattato di andare al concerto, lei ha provato, l'altra sera, un serio imbarazzo. "Quest'uomo - si è detto - cantò tanti anni al Metropolitan con il solo registro acuto, e suppliva alle lacune del centro e del basso con un suo modo di cantare che nessuno capiva. Adesso, nella parabola discendente, dovrebbe aver perduto anche gli acuti. Quale doloroso spettacolo mi si presenterà questa sera? Come felicitare poi il collega? Dovrei mentire". Con questa spina nella mente, ella era andata al concerto. Ma dall'apprensione era passata alla sopresa, dalla sorpresa allo sbalordimento per la rivelazione di un mistero inaudito. Là sopra, su quella ribalta, cantava un essere pieno di vitalità, trasfusa in tutte le sonorità di una gamma omogenea, franca, tersa, dalle note più gravi alle acute. Che è mai successo? Che ha fatto questo uomo? Eppure il tempo non è un'opinione: gli anni passano per tutti, e trenta anni di attività ininterrotta bastano a sfaldare qualunque organo. La Queena non capiva. Voleva sapere in che consistesse il mistero di quella realtà indubbia, cui rendevano plauso non due, ma migliaia di mani. Il fenomeno esisteva ed era là palpitante, percepibile, per quanto assurdo. Dunque, l'assurdo esiste. L'americanina, che insegna da venti anni il canto, sembrava assolutamente una profana, estranea alla spiegazione del fenomeno: " Come ha fatto? Che cosa fa? Mi spieghi, 'please' ".
Nulla ho fatto che non sia logico. Incominciò trent'anni fa, l'avventura della vocina di contraltino, che non trovava risonanze sicure prima d'arrivare alle note di passaggio. Se i dirigenti del Metropolitan avessero avuto coscienza vocale, non avrebbero dovuto permetterle di uscire dal repertorio acuto: "Puritani", "Rigoletto", "Don Pasquale", "Favorita", "Sonnambula". Per contro, il solenne Gatti-Casazza e l'elegiaco Serafin si accordarono per fare di quella vocina una funambula. Oggi "Rigoletto", posdomani "Norma"; la settimana successiva "Barbiere" e dopo due giorni, il "Re di Lahore" o "Giovanni Gallurese". Qualunque altra voce si sarebbe smarrita. Io capii che all'astuzia doveva opporsi l'astuzia: supplire al volume inesistente delle regioni centrali e gravi, l'accento, la dizione che risparmia fiato e mantiene e sviluppa le articolazioni orali e proietta il suono nello spazio. L'espediente, suggerito dall'istinto di preservazione, salvò la situazione e conservò la spontaneità degli acuti, in attesa che l'organismo si maturasse e, con esso, la voce. Temporeggiando, mi servii del borioso Metropolitan come di un teatrino sperimentale di provincia con la rimunerazione dai mille ai millecinquecento dollari a recita. Fatto unico nella storia del teatro lirico. E intanto, tornavo in Europa, conquistando allori ed alte quotazioni con l'invulnerabile spontaneità vocale, la disinvoltura scenica, la chiarezza della parola e l'incisività dell'accento. Altrimenti, come avrei potuto emergere in un momento in cui trionfava tra tutte la intensa, calda voce di Caruso e intorno ad essa uno stuolo di voci eroiche, romantiche, cerebrali, passionali, classiche, in mezzo alle quali la mia - se non avesse avuto virtù non spregevoli - sarebbe passata come un'ombra, un sussurro? Allora cantavano Zenatello, robusta voce; Bassi, voce di scatto e squillo; Grassi, voce audace e incisiva; Pertile, saggio dicitore; Anselmi, languido ed elegante; Schipa, furbissimo stilizzatore; Paoli, fenomeno vocale; De Muro Bernardo, colonna di suono fiammeggiante; il mistico Gigli, voce elegiaca o turgida; il corretto Merli, ugola grassa; Fleta, il magnifico; Lazaro, l'estroso; Thill, aitante ed elegante; Tauber, intelligente e squisito; Martinelli, eroico e massiccio; Bonci, tecnicista sfavillante. Tra Caruso e Bonci - e una pleiade di cantori per tutti i gusti e gli stili - che cosa avrei dovuto fare io, che venivo, incauto ed ignaro, dalla trincea? Ebbene: l'esordio fu una rivelazione, di cui tutta Roma parlò; di lì a un anno, la rivelazione al Dal Verme di Milano col "Rigoletto", e tutta l'Italia ne parlò. Dopo di che, i successi di Bologna e di Madrid. Quindi il Colon, la Scala, il Metropolitan. Una voce, per due terzi vuota, era dunque arrivata in primissima fila, lasciando alle spalle gran parte di quei cantori, dotati sino all'inverosimile. Queena Mario, non ha capito che i più, quando imparano a cantare, hanno già perduto il coraggio di cantare. Io, invece, comincio adesso ad aver tutta la mia voce, dopo aver esplorato tutti i fenomeni della eufonia e della fonetica biologica, e maturato organi, tessuti, cervello e mente. Dicevo che nulla ho fatto che non sia alla radice della logica. E della morale. Questa voce non si estinguerà senza dar luce e vibrar suoni fino all'ultimo, inevitabilmente. Questo è il così detto 'caso' Lauri-Volpi, sotto uno dei suoi molteplici aspetti meno conosciuti, ma più reali. »
(da: G. Lauri Volpi - “A viso aperto”, Corbaccio, dall’Oglio editore, 1953)
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