Critica analitica delle
registrazioni di "Una furtiva lagrima" (lirico-leggero), "O
paradiso" (lirico), "Di quella pira" (drammatico) e di "E
lucevan le stelle" (spinto) incise da Giacomo Lauri-Volpi, Beniamino Gigli,
Aureliano Pertile e Hipolito Lazaro.
In questo articolo, verrà svolta un'analisi approfondita di quattro brani operistici esemplificativi, mettendo a
confronto con Gigli, Pertile e Lazaro, il tipo di gestione tecnico-vocale e al
contempo l'interpretazione scelta dal tenore Lauri-Volpi, nel suo ideale di
raggiungimento di tenore assoluto, spaziante dal lirico-leggero al drammatico,
passando dal lirico e dallo spinto. Questa particolare evoluzione partì dai
"Puritani" di Bellini nel 1919 e si concluse idealmente con l'
"Otello" verdiano nel 1942.
Dal
nostro punto di vista,
fisiologicamente Volpi possedeva uno strumento di tenore lirico-spinto,
avendo anche però l'eccezionalità di una rara ampiezza d'estensione
dalle note gravi
alle acutissime (sopracuti) con un sapiente uso della tecnica vocale che
ha costantemente
cercato di raffinare, mai sedendosi sugli allori, e con una intelligente
gestione della voce che gli ha permesso di spaziare in tutti i tipi di
repertori.
Ha realizzato così l'ideale da lui perseguito tutta la vita:
mantenere la voce sempre fresca e viva e in salute, e coprire un vasto
repertorio, arrivando persino a cantare il verismo ma senza mai forzare, senza
cantare di fibra, senza abbandonare la scuola del canto "sul fiato" e
del legato del bel canto dell'Ottocento.
Eccone una testimonianza diretta
assolutamente autorevole: in Carmen, all’Arena di Verona, nel 1961 Gabriella
Panizza intervistando il giovane tenore Franco Corelli gli chiese:
“Durante
un’intervista, Lauri Volpi mi ha detto che vai spesso da lui per motivi di
studio. Cosa ti colpisce di più in questo grande tenore?” Questa fu la risposta
di Corelli:
“Purtroppo mi è stato possibile
ascoltare Lauri Volpi [in teatro] solo poche volte. Me ne ricordo una con
particolare emozione. Nel ’58, mentre stavo studiando “Turandot”, una sera mi
recai a Caracalla per assistere a una recita dell’opera pucciniana interpretata
da lui. Ho avuto un vero choc: la parte di Calaf fatta di squilli, di
incisività, di canto eroico e di “bel canto” insieme, emergeva completa in
tutto il suo fascino; e la prova di Lauri Volpi mi pareva insuperabile.
“Turandot” era un’opera scritta per lui e forse per nessun altro. Per un anno
chiusi lo spartito, convinto che non avrei mai potuto reggere al suo confronto.
Un anno più tardi, spinto dalle continue pressioni degli impresari, accettai di
portare in scena quest’opera. Ma l’interpretazione di Lauri Volpi mi è sempre
rimasta davanti agli occhi”.
Egli fondò la sua estetica sulla
"mezza voce" (come Volpi ricorda in "Incontri e scontri"
del 1971: <<Bonci e Caruso, proprio perché opposti, destavano curiosità e
facevano interesse. Il pubblico accorreva ad ascoltarli, a cogliere le
differenze di due epoche nel loro canto. Poi venne la fila incolore delle voci
fabbricate a serie, a immagine di un tipo unico. Donde la decadenza del canto
che oggi tutti si danno a lamentare, senza correre ai ripari, a stabilire idee
chiare per un ritorno alla sana fonazione, di cui A. Bonci fu coraggioso
campione in scena e maestro nella scuola. Egli stesso, in seguito al mio
esordio, mi avvertì di star lontano dai mali passi, un giorno che mi presentai
a lui sotto gli archi dell’Esedra, in Roma. Elogiò il mio materiale vocale ma
non approvò in tutto la mia tecnica. Quale tecnica? Io venivo dalla trincea e
cantavo con l’innocenza dell’ignoranza. Egli propugnava vivacemente la
necessità di attenersi alla “mezza voce” e non imitare coloro che abusavano dei
suoni falsi. “Il falso” – diceva – “è cotone. La mezza-voce, è seta pura, e
salva bronchi e polmoni.” >> ) e sulla voce "di testa", come
salvezza della voce, e per questo sempre proponendo di cantare repertori
impervi in tono (stupendo così persino Toscanini), non trasportando sotto di un
semitono o addirittura di tono come facevano abitualmente tanti altri tenori
prima di lui e contemporanei a lui.
Pur rispettando quindi l'arte di
Caruso (che fu anche il primo a diventar famoso col disco e a rendere celebre
la nuova invenzione del disco che permetteva così di rendere mondiale l'ascolto
della lirica), fu l'unico tenore come un astro solitario lungo il Novecento a
non farsi influenzare dal tenore napoletano e a non seguire il tipo di via
indicata che segnò, volenti o nolenti dopo, il 1921, con la scomparsa del
cantante partenopeo, il resto della storia del canto tenorile.
Al contrario di
Caruso, Volpi (il quale semmai vide in Bonci, più volte a suo stesso dire, il
modello ideale di gestione tenorile della voce) si prodigò per tenere i centri
della voce "leggeri" (cosa che non significa assolutamente di mirare
ad emettere suoni da tenore lirico-leggero, qui sta il grande equivoco!!!) come
nessun altro ha fatto esattamente in quel modo, vale a dire di non pressare né
ingrossare né spingere mai nella zona centrale della voce, e di usarli, codesti
centri, per svettare in salutare "voce di testa", squillante,
limpida, libera e tenorile nella zona acuta!
E' vero che inizialmente era
partito con un repertorio da lirico-leggero ma questo non significa che avesse
uno strumento da tenore di grazia a livello di natura del suo organo vocale,
come l'aver cantato l' "Otello" verdiano interpretativamente in modo
mirabile non vuol dire che possedesse uno strumento nato per cantare quel
ruolo, con quella determinata scrittura baritenorile, come quello di un Corelli
(che avrebbe potuto benissimo cantarlo in teatro!) o prima di lui un Merli (che
dal 1933 al 1948 cantò il ruolo del Moro per ben 295 volte!!!). E pur tuttavia,
con una tecnica sopraffina e delle doti fuori del comune riuscì a cantare di
tutto e senza problemi, in questo unendo la lezione del baritono Antonio
Cotogni con quella di sua moglie, il soprano Maria Ros.
A conferma di ciò, oltre che
dalle caratteristiche proprie all'ascolto della voce squillante e naturalmente
spinta di Volpi (ma mai utilizzata con una emissione spinta del suono!!!),
abbiamo anche un importante episodio storico testimoniato da Volpi nel suo
libro "L'equivoco" del 1938 nel quale ad un certo punto racconta cosa
disse e gli suggerì Mascagni stesso (che durante una tournée in Sud America nel
1922 lo volle come Turiddu nella sua "Cavalleria rusticana"):
«Nella
capitale dell'Uruguay, Lazaro e la Dalla Rizza cantarono l' "Iris",
Fleta e la Dalla Rizza la "Tosca", e la Besanzoni ed io la
"Favorita". (...) Mascagni non tralasciava
occasione per manifestarmi giudizi apertamente favorevoli e lieti pronostici
sullo sviluppo giornaliero dei suoni, di cui facevo sfoggio nel'invettiva del
terzo atto e nella maledizione successiva.
"Caro Lauri-Volpi - diceva -
Lei non si sente; ma io dal podio dell'orchestra sono investito dalla pioggia
di brillanti che l'impeto della sua voce lancia nello spazio con generosità
senza risparmio. Lei non è un lirico leggero. Vedrà, fra non molto, che Lei
sarà capace d'interpretare ruoli di maggior mole, che la sua voce splendente di
giovinezza potrà librarsi in più alti voli e attingere più arditi
fastigi".»
Per comprendere il segreto di
Volpi, fondamentale è la sua intramontabile "lezione" espressa in
questo passo principe dal suo libro "Cristalli viventi", scritto
durante la Seconda Guerra Mondiale e pubblicato poi nel 1948:
<<La nota di passaggio, il
punto d'appoggio ch'è punto vitale della voce, è propiziato dallo
"spiritus levis", per cui il suono si redime d'ogni pastoia e vola
alla regione eterea, di cui partecipa nello splendore e nella penetrazione del
timbro. (...)
Le voci razionali, superata la
nota di saldatura che nella soprano e nel tenore corrisponde al "Fa"
e al "Fa diesis", non trovano difficoltà di ascendere sulla corrente
fluida della forma aerea dei suoni ed avranno la sensazione di sentirsi leggiere
e brillanti come se respirassero un'atmosfera superiore in alta montagna, e
stessero a contatto dell'anima più assai che del corpo.>>
(da: Giacomo Lauri-Volpi -
"Cristalli viventi" - Atlantica, Roma 1948)
Nel Diario di Lauri Volpi, 20
giugno 1949, rivela la sua importante strategia vocale:
<<Incominciò trent'anni fa,
l'avventura della vocina di contraltino, che non trovava risonanze sicure prima
d'arrivare alle note di passaggio. Se i dirigenti del Metropolitan avessero
avuto coscienza vocale, non avrebbero dovuto permetterle di uscire dal
repertorio acuto: "Puritani", "Rigoletto", "Don
Pasquale", "Favorita", "Sonnambula". Per contro, il
solenne Gatti-Casazza e l'elegiaco Serafin si accordarono per fare di quella
vocina una funambula. Oggi "Rigoletto", posdomani "Norma";
la settimana successiva "Barbiere" e dopo due giorni, il "Re di
Lahore" o "Giovanni Gallurese".
Qualunque altra voce si sarebbe
smarrita. Io capii che all'astuzia doveva opporsi l'astuzia: supplire al volume
inesistente delle regioni centrali e gravi, l'accento, la dizione che risparmia
fiato e mantiene e sviluppa le articolazioni orali e proietta il suono nello
spazio. L'espediente, suggerito dall'istinto di preservazione, salvò la situazione
e conservò la spontaneità degli acuti, in attesa che l'organismo si maturasse
e, con esso, la voce. Temporeggiando, mi servii del borioso Metropolitan come
di un teatrino sperimentale di provincia con la rimunerazione dai mille ai
millecinquecento dollari a recita.
Fatto unico nella storia del
teatro lirico.
E intanto, tornavo in Europa,
conquistando allori ed alte quotazioni con l'invulnerabile spontaneità vocale,
la disinvoltura scenica, la chiarezza della parola e l'incisività dell'accento.
Altrimenti, come avrei potuto emergere in un momento in cui trionfava tra tutte
la intensa, calda voce di Caruso e intorno ad essa uno stuolo di voci eroiche,
romantiche, cerebrali, passionali, classiche, in mezzo alle quali la mia - se
non avesse avuto virtù non spregevoli - sarebbe passata come un'ombra, un
sussurro? Allora cantavano Zenatello, robusta voce; Bassi, voce di scatto e
squillo; Grassi, voce audace e incisiva; Pertile, saggio dicitore; Anselmi,
languido ed elegante; Schipa, furbissimo stilizzatore; Paoli, fenomeno vocale;
De Muro Bernardo, colonna di suono fiammeggiante; il mistico Gigli, voce
elegiaca o turgida; il corretto Merli, ugola grassa; Fleta, il magnifico;
Lazaro, l'estroso; Thill, aitante ed elegante; Tauber, intelligente e squisito;
Martinelli, eroico e massiccio; Bonci, tecnicista sfavillante.
Tra Caruso e Bonci - e una
pleiade di cantori per tutti i gusti e gli stili - che cosa avrei dovuto fare
io, che venivo, incauto ed ignaro, dalla trincea? Ebbene: l'esordio fu una
rivelazione, di cui tutta Roma parlò; di lì a un anno, la rivelazione al Dal
Verme di Milano col "Rigoletto", e tutta l'Italia ne parlò. Dopo di
che, i successi di Bologna e di Madrid. Quindi il Colon, la Scala, il
Metropolitan. Una voce, per due terzi vuota, era dunque arrivata in primissima
fila, lasciando alle spalle gran parte di quei cantori, dotati sino
all'inverosimile.>>
E ancora, da tener ben presente,
cosa scrisse Volpi nel suo diario nell'anno 1950:
<<Osservo me stesso e
contemplo il mistero di questa voce divenuta così spontanea e sicura, laddove,
giovine, trovava difficoltà e commetteva errori di colore d’intonazione e di
emissione. (…) la voce ha trovato riposo, risparmio e sicurezza nella volta
“palatina”. La nota, spinta dal soffio, si adagia, per così dire, nella cavità
orale superiore, dietro gli incisivi e, con l’aiuto delle labbra, si
estroflette nello spazio, modulando, con l’articolazione libera, le vocali. In
tal modo ingolamento e intasamento del suono vengono evitati, e lo sforzo,
bandito. Similmente, la respirazione non soffre fatica e l’intonazione alcuna
offesa, per dar modo al canto di spiegarsi in ampiezza solenne e sonorità
genuina. Grazie all’acquisita certezza, la voce è divenuta più lucente e
robusta, nonostante il trascorrere del tempo (…) Il mio pensiero ha lavorato, e
finalmente, ha trovato il punto di percussione giusto, indefettibile, che non
altera il timbro né ingrossa il suono. Or, dico, comprendo praticamente
l’assioma rossiniano: “Diffondere il suono con l’aiuto del palato, trasmettitore
per antonomasia delle belle sonorità”. (…) Col tempo, la voce tende alla
gravità (…) Ma il volume, come l’obesità corporea, è la morte prematura dei
suoni. Detestando, per principio, il volume, ho salvato il timbro e il fiato.
Il volume guasta il mantice.>>
(da: G. Lauri Volpi - “A viso
aperto”, Corbaccio, dall’Oglio editore, 1953, pagina 333 : Diario, 11 aprile
1950)
L'anno successivo Volpi scrive
poi nel suo diario personale, a mo' di "confessione", il 10 novembre
1951, un'importante considerazione sull'emissione da usare nei Puritani, opera
con la quale debuttò nel lontano 1919:
<<Sampaoli, direttore del
Teatro dell'Opera, telegrafa invitandomi ad accettare, in omaggio a Vincenzo
Bellini, nel 150° della nascita, e per una dignitosa chiusura della stagione ai
primi del venturo maggio, alcune recite de "I Puritani". Un
presentimento mi ha suggerito di studiare l'arduissima opera durante le vacanze
e, in essa, a coltivare ed evocare i suoni innocenti e lo stile patetico che la
distinguono. La canto, adesso, con spontaneità e sicurezza, in tutta la gamma,
che nel 1933, al Maggio fiorentino, non riuscii a raggiungere, perché m'ero
indotto ad eseguirla col volume e l'emissione adeguati all' "Aida" e
al "Trovatore", o alla "Tosca" e alla "Turandot".
L'errore mi obbligava a forzare i suoni e a spossare l'organismo. Allo sforzo,
peraltro, non era estraneo il diapason "brillante" dell'orchestra
sinfonica di Firenze, che mi portava a raggiungere addirittura il "mi
bemolle" sopracuto: cosa da sbalordire ed annientare chiunque. Su quella
nota e dietro quella nota, ripetuta nel duetto, la mia testa pareva staccarsi,
mentre il resto del mio corpo rimaneva traballante sulla scena: sensazione
terribile che m'obbligò a non più accettare "I Puritani".
Il Maestro Serafin, in seguito,
raccomandò una modificazione del diapason nelle orchestre, abitualmente
crescenti, durante la esecuzione, ma invano. Già Toscanini si stupì, nel 1922,
nell'apprendere da me che avevo cantato "I Puritani" al Malibran di
Venezia nella tessitura originale, e protestò contro l'insipiente maestro che
mi aveva diretto. "Questo genere d'opere, dall'anormale tessitura -
m'avvertì - vennero scritte per i tenori sopranisti di un secolo fa, ed oggi
vanno eseguite con ovvie e congrue riduzioni di tonalità. E' assurdo pretendere
dalla voce di tenore, maschia e squillante, che emetta senza grave rischio un
"re naturale" sopracuto a tutta forza, mentre quei cantori dell'epoca
del Bellini, solevano cantare l'opera in "misto" e in "falsettone",
molto pregiati dal pubblico di quei tempi".
Ho consentito di accettare la
proposta del Sampaoli con allegrezza ed emozione.>>
(da: G. Lauri Volpi - “A viso
aperto”, Corbaccio, dall’Oglio editore, 1953)
Il tenore Franco Corelli, allievo di Giacomo Lauri - Volpi |
Altra importante testimonianza,
quella di Corelli che studiò con Volpi perfezionandosi durante la carriera, tra
gli anni '60 e i primi anni '70:
<<Andai a trovare Lauri
Volpi a casa sua a Burjasot, vicino a Valencia, per chiedergli dei consigli sul
mio canto. Riteneva che la mia voce fosse troppo pesante e che, cantando nel
centro troppo forte, io mi pregiudicassi la possibilità di raggiungere un
autentico apice negli acuti. Voleva che la mia voce galleggiasse maggiormente.
(...) Ogni anno, per tredici anni, ho passato un mese di tempo, a Valencia,
studiando con lui. (...)
Egli mi diceva, “Corelli,
ricorda, un'aria dura tre o quattro minuti. Nel novantacinque per cento dei
casi l'acuto è alla fine. Più spingi nella voce media più difficoltà avrai
sull'acuto. Quando fai bene l'acuto il pubblico applaude. Quando non lo fai
bene non applaude.”>>
(da un'intervista audio a Franco
Corelli, nel programma radio newyorkese "Opera Fanatic", condotto da
Stefan Zucker, del 9 giugno 1990)
Rivelatorie le parole affermate
in questa semplice cartolina firmata da Volpi:
Burjasot, 1 marzo 1973
"Grazie del ricordo e auguri
per i suoi studi vocali.
Per giudicare una voce e un
metodo bisogna udire il cantante, altrimenti si rischia di dire, per lettera,
una cosa per un'altra. IL MIO METODO NESSUNO, IN ITALIA, L'HA MAI CAPITO. Tutte
le voci crollano a 50 anni. La mia è qui tutta intera. Lo domandi a quel suo
amico, al quale allude. Egli l'ha udita.
Cordialmente la saluto
G. Lauri-Volpi"
Il Baritono Antonio Cotogni a sinistra, e il suo Allievo, il Tenore Lauri - Volpi a destra |
Più tardi, ricordando i precetti
di Cotogni, nel 1974:
<<Cotogni mi diceva:
Allerta, eh! non caricate i centri (...) il tenore deve cantare nel centro, ma
non può gonfiare il centro (...) innanzitutto il canto è alito vibrante, se
questo alito, se questo fiato noi non lo mandiamo alla cassa armonica, non lo
mandiamo agli armonici, e si canta di petto o si canta con l'addome, che
succede? che la voce non trova la via d'uscita, mentre la voce deve essere
tutta passata fin dal registro basso (...) Cotogni diceva: Attaccate gli acuti
e poi scendete giù, con la stessa emissione dell'acuto scendete giù all'ottava
bassa e voi troverete il punto d'appoggio>>
<<il mio maestro Cotogni
diceva: Figlio mio, canta nei centri, ma risolvi negli acuti, perché il centro
è proprio dei baritoni, il registro basso è dei bassi, ma non indugiate, non
ingrossate i centri perché aumentate il volume; IL VOLUME NELLE VOCI E' COME IL
GRASSO NEI CORPI, NON E' MUSCOLO. E questo dogma cotognano io l'ho avuto sempre
presente, e infatti non m'ha nociuto...e infatti forse sono una delle poche
gole che non ha avuto noduli alle corde vocali>>
(Da un'intervista a Lauri-Volpi
effettuata nel 1974 da Rodolfo Celletti, trasmessa dalla RAI nel programma
"Una vita per la musica")
Infine queste sue parole dette in
età anziana, che sintetizzano il suo ideale di canto:
<<Per me il canto è stato
esclusivamente una realizzazione dell'ideale del BEL CANTO, il BEL CANTO
dell'Ottocento. Oggi cantano col "verismo", tutti strillano, tutti
urlano! Non hanno una "mezza voce", la voce dev'essere completa! La
voce dev'essere l'espressione dell'anima, altrimenti è espressione di un
corpo.>>
(Lauri Volpi 85enne parla di
"belcanto" e della sua voce. L'intervista è stata realizzata nella
sua villa di Burjasot in Spagna)
La critica tecnico-interpretativa
che segue poteva svolgersi su tante altre arie di tante altre opere, abbiamo
deciso di scegliere queste come puro "modello" d'analisi (se ne
potevano scegliere anche altre), ma i risultati che ne escono rimangono
comunque veri anche nel resto del repertorio affrontato sia da Volpi che dagli
altri tre tenori prescelti in questa comparazione. Non è tanto importante,
insomma, quali momenti operistici scegliere di ascoltare ed analizzare. Qui si
vedrà, piuttosto, come una "via" di gestione vocale e
d'interpretazione viene perseguita idealmente nel corso della carriera di
questi quattro tenori a nostro avviso di prima importanza nella storia del
canto dell'epoca d'oro dell'opera italiana.
Prima di partire con le
comparazioni date all'ascolto delle incisioni di questi quattro nelle medesime
quattro arie da noi qui scelte, ricordiamo con quali insegnanti si formarono
questi quattro grandi tenori.
Giacomo Lauri-Volpi, il tenore di
Lanuvio, studiò di fatto pochissimo tempo con Cotogni a Santa Cecilia, poi a
prima guerra mondiale finita, dopo un breve insegnamento ricevuto a Roma dal
maestro Rosati, partito improvvisamente con la carriera nel '19 potè cantare a
lungo e senza sforzo grazie soprattutto all'aiuto tecnico-vocale della moglie
Ros unito al suo infaticabile impegno personale nel volersi migliorare a
cominciare dal momento dello studio a casa fino alla recita e alle varie recite
del medesimo ruolo operistico interpretate in più teatri.
Per quanto riguarda invece
Beniamino Gigli, da ragazzetto fu solista tra i "Pueri Cantores" di
Recanati per ben dieci anni e dunque il maestro di coro Quirino Lazzarini fu il
suo primo insegnante, successivamente studiò con Agnese Bonucci, poi seguirono
pochi ma importanti mesi a Santa Cecilia con Cotogni e definitivamente per
diversi anni il suo insegnante fu Enrico Rosati. Facciamo notare come con
Cotogni e Rosati, in parte la scuola tecnica di Volpi e Gigli era la stessa a
livello di base.
Aureliano Pertile studiò con
Giacomo Orefice a Padova e Gaetano Bavagnoli a Milano, mentre lo spagnolo
Hipolito Lazaro fu allievo del tenore Ernesto Colli a Milano.
Un ultima cosa, prima
dell'ascolto, da considerare è il rapporto non felice da parte di Volpi con la
registrazione (fu uno dei pochi che cantò con diverse generazioni di cantanti
nel corso del suoi 40 anni di carriera, e che aveva conosciuto e ascoltato
diversi grandi cantanti prima del 1919 e dopo il 1959 quando lasciò le scene
d'opera, e quindi sapeva come risultava effettivamente in modo diverso dal
disco tante volte una particolare voce in teatro, rispetto al disco) ed il
perché nonostante ciò continuò a cantare anche dopo l'abbandono del teatro, in
concerto e registrando in disco, esprimendo qui nel 1976 una apparente ma solo
apparente contraddizione:
(...) - E' vero, secondo lei, che
l'Italia ha perso il primato del "bel canto" nel mondo? Se sì, quali
sono le ragioni di questo decadimento?
G. Lauri Volpi: <<Sì! La
causa: il canzonettismo, iniziato a S. Remo.>> (...)
- Attualmente i cantanti vengono
generalmente lanciati attraverso registrazioni discografiche, e riescono solo
in seguito a calcare i palcoscenici. E' giusto, secondo lei, questo iter
artistico alla rovescia?
G. Lauri Volpi: <<No. I
cantanti debbono studiare sette anni per affrontare il grande repertorio. Si
"lanciano" gli urlatori microfonici.>> (...)
- Quale parte hanno avuto i
dischi nella sua carriera?
G. Lauri Volpi: <<Negativa.
Il disco dà voce a chi non l'ha, deforma chi l'ha.>> (...)
- Perché si esibisce ancor oggi
in dischi e in concerti?
G. Lauri Volpi: <<Per
dimostrare che la scuola dell'Ottocento è l'unica idonea a manifestare un
ideale d'Arte e di Vita.>>
[da: Intervista a G. Lauri Volpi,
"Il Principe Ignoto sono io!" - Busseto (Parma), 1976 - in: Bruno
Baudissone, "Un nido di memorie", interviste a 40 cantanti lirici,
Scomegna, 1983]
Nessun commento:
Posta un commento