L'acustica all'aperto all'Arena di Verona, secondo G.Lauri-Volpi ('Rigoletto' e 'Turandot', 1928) e B.Gigli ('Marta' e 'Africana', 1932)
ACUSTICA ALL'APERTO all'Arena di Verona, secondo Lauri-Volpi ('Rigoletto' e 'Turandot', 1928) e Gigli ('Marta' e 'Africana', 1932)!!!
Lettera di Lauri-Volpi, inviata da Venezia - tra una recita e l'altra del 'Rigoletto' e di 'Turandot' - il 20 agosto 1928 alla moglie Maria Ros che si trovava in quel momento a Valencia:
"Appena arrivato a Genova e liberatomi dalle noie della dogana, partii in automobile con Zenatello. Arrivammo a Milano in sei ore penose, per la pessima strada e la polvere asfissiante. L'indomani, all'alba, ripartimmo per Venezia. Tre ore deliziose, queste, per la bellissima strada olmata e il panorama suggestivo. Poche ore di riposo nella villa di Zenatello e la Gay: una corsa in mezzo a un orto ricco di vegetazione. In serata, una prova all'Arena. Ieri sera mi presentai nel 'Rigoletto'. Successo enorme, replica della 'ballata' e della 'canzone'; parossismo del pubblico al 're bemolle' del duetto. La voce mi ha servito pronta e ardita, quasi che non fossi esaurito dal lungo viaggio in mare e in macchina e dal poco dormire. L'Arena è veramente superba, grandiosa, gloriosa. Immagina: ieri sera, gremitissima, era un mare di teste. E quando nell'immensa cavea e per le gradinate, illuminate a giorno, il pubblico in segno di saluto, sventolò in mio onore i fazzoletti e, spente le luci, accese, come qui si costuma, miriadi di candeline, tutto il vasto anfiteatro romano offriva, nella notte stellata, uno spettacolo indimenticabile, unico. Peccato, Maria, che tu non c'eri. Avresti pianto di gioia. La notte scorsa, esaltato dalla recita, e stanchissimo per le tante emozioni, ho dormito appena cinque ore. Questa sera, 'Turandot'. Per la prima volta, in vita mia, ho cantato all'aperto, davanti a tanta folla. In quella vastità temevo che la voce si perdesse. Per contro - mi si dice - ha risuonato, dominatrice, ovunque conquistando spazi e cervelli. La gente sembrava impazzita."
(da: G. Lauri Volpi - "Parlando a Maria" - Trevi Editore, 1972)
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28 luglio 1932 - Verona, in occasione delle recite di "Africana", Beniamino Gigli concede un'intervista al giornale "Arena":
«(...) "Nel mio continuo pellegrinare - pellegrino di canto e di arte, per quanto mi è possibile, italiana - Verona è una delle soste più care e più belle", così ci diceva Beniamino Gigli, rievocando il suo soggiorno ed il suo successo veronese di tre anni fa. "Verona è una città nella quale io respiro l'aria dell'arte (...) Potrei dire che qui è tutto bello; certo che tutto è suggestivo come è suggestiva la storia di questa città illustre che, fra gli altri primati, può vantare quello - e per un artista non è una cosa secondaria - degli spettacoli lirici all'aperto".
- Lei crede, abbiamo chiesto, al successo, o meglio all'avvenire, degli spettacoli lirici all'aperto?
"Certo" - e nel risponderci calorosamente, il suo volto si è illuminato di un sorriso - "certo, e non affermo un paradosso, i veri spettacoli lirici, i più completi si possono avere all'aperto. Ma, c'è un ma, che pregiudica queste rosee speranze; e cioè che pochi sono i teatri all'aperto che si prestano bene. Il migliore, quello che ha diritto ad un avvenire, è il teatro costituito dalla vostra Arena. Lo spettacolo lirico in Arena non perde della sua efficacia musicale e vocale, poiché i mezzi acustici del grande anfiteatro sono meravigliosi, dovrei dire portentosi. Quanti non sono i teatri che vanno per la maggiore, e sono più sordi dell'Arena? Potrò farne un elenco che sarebbe più numeroso delle dita delle mani. E lei", continua il nostro interlocutore, sempre più accentuando la vivacità della sua conversazione, "non ha idea che voglia dire per un artista cantare in un teatro che uccida la voce, che ne smorzi i chiaroscuri e ne uniformi quella gamma di pause che sono necessarie onde creare nel canto quell'atmosfera melodica che è la sua ragione principale di gioia e di entusiasmo per lo spettatore. Questi inconvenienti in Arena non si verificano, poiché essa è, per usare una frase colorita e di moda, una grande conchiglia sonora. (...)".
- Ha provato subito questa sensazione, durante le prime due recite di "Marta"? Beniamino Gigli sorride e tace per qualche breve istante. Il ricordo del primo debutto in Arena, è certo per l'illustre artista molto gradito.
"Ecco: sarò sincero. Accettai di cantare in Arena con qualche esitazione. Temevo che l'anfiteatro non rispondesse a pieno, e che il pubblico gradisse questi spettacoli più per la loro completezza coreografica, che per la loro impronta artistica lirico-musicale. Invece, dopo i primi momenti nei quali non provavo apprensione, ma un senso di disagio, mi accorsi che il pubblico - e che pubblico era: un fiorire infinito di teste, di vesti che io scorgevo indistintamente; e lassù in alto, il bagliore bianco dell'ala dell'Arena, sola, e irta come un fantastico scoglio - dicevo che mi accorsi come il pubblico sin dall'inizio fosse preso dal canto e dalla musica, che risuonavano nel silenzio alto dell'anfiteatro in tutta la loro pienezza". (...)»
Gli Ugonotti all'Arena di Verona - RADIOCORRIERE - 13-20 agosto 1933 (con Lauri-Volpi)
LE GRANDI TRASMISSIONI DELL' "EIAR" - "UGONOTTI" ALL'ARENA DI VERONA -
(...) Ormai, lanciare nell'etere uno spettacolo, anche non appositamente preparato per la radio, è divenuta cosa quotidiana: ma certe commistioni, che, letterariamente, si potrebbero definire, all'antica, contaminazioni, generano tuttavia nuove meraviglie e ammirati consensi. Non si entra in uno dei grandi monumenti del passato senza riceverne nell'anima il prestigio: e in verità sembra che i fantasmi di antichi costumi, di glorie polverizzate, di forze disperse, risalgano dalle ruine, specialmente quando queste rimangano quasi intatte, come avviene per l'Arena di Verona. E già sorprende di poter ricostruire spettacoli odierni, là dove i Romani organizzarono feste grandiose, di ammassare migliaia di spettatori, in abito d'oggi, là dove furono i pèpli, le porpore, le tuniche, le lorìche; di alzar palcoscenici giganti, dove si ergevan le tribune dei Consoli e dei Proconsoli, di affidare gli effetti luminosi ai potenti riflettori elettrici, dove soltanto il Sole li creava, e di far cantare Lauri Volpi, in vesti cinquecentesche, là dove i bestiarii, i reziarii, i gladiatori, davan spettacolo di gagliardia e d'audacia. Ma più ci esalta collocare i microfoni, minimi ordegni novecenteschi, a contatto con le pietre millenarie, che reggimenti di schiavi tagliarono, alzarono, addossarono, per trenta metri d'altezza e 400 metri di perimetro, in tre file di cinte, e son lì, da venti secoli, maestose e taciturne, e videro tanta storia di tempi e di genti, e oggi servon l'acustica per una trasmissione radiofonica... La quale, conviene dirlo, si presentava, tecnicamente, con molte incognite, non tanto per l'incrocio di innesti di linee, dovendo irradiarsi per tutta l'Italia, quanto per le difficoltà di "presa". Il pubblico di un'Arena non è quello di una sala, dove leggi e tradizioni impongono una disciplina di silenzio e di compostezza. Nell'Arena, la stessa enormità di spettatori, calcolati a 18.000, provoca un diffuso e gigantesco mormorio, imponente di altezza e di vastità. Inoltre, linee di fortuna, grovigli di cavi, mucchi di batterie, messi in opera, dove?... In un sotterraneo della galleria interna, in una di quelle volte che fan capo ai 74 vomitorii antichi, oggi chiusi verso la "càvea" ma aperti appunto nei sotterranei: e a contatto con gli altri giganteschi "camerini", dove centinaia di comparse, guerrieri, ballerini, folla d'ambo i sessi, studenti, cittadini, ugonotti e cattolici, tutti egualmente religiosi del fracasso e dello schiamazzo, andavano, venivano, gorgheggiavano, gridavano, allegrissimi ad onta delle discordie intestine che avvenivan frattanto sul palcoscenico. Pure, a prescindere dallo spettacolo visivo, che rappresenta certamente una grande attrattiva, si può affermare che, dal punto di vista lirico, l'Opera di Meyerbeer sia stata gustata meglio per radio che per diretta ascoltazione. Pensiamo, infatti, alle condizioni di vastità dell'ambiente; l'orchestra, pur di grande complesso, sembra affiochirsi in tanto aere, e alle gradinate estreme giunge assai tenue; lo stesso valga per le voci, che, se sprofondate in dentro, han da vincere distanze prodigiose. Sicchè, ci vuole la potenza d'un Lauri Volpi o d'un Pertile, per superarle con vantaggio. Perfino la compattezza dei cori subisce talune diseguaglianze, taluni ritardi fra primi e ultimi piani, comprensibilissimi. Orbene, ai microfoni, posti con scienza oculata, nessun rapporto giunge diminuito o sfocato. Essi raccolgono in piena misura tanto le voci del palcoscenico come quelle orchestrali, evitando in maniera quasi assoluta i movimenti della folla innumerevole. Martire, certo, ed eroe, il direttore tecnico della trasmissione. Conoscetelo, idealmente, o ascoltatori! Vedetelo, all'atto dell'inizio, già in cuffia da un'ora per i definitivi assaggi delle linee, già esausto di preparazione e di organizzazione scientifica, passare in completa tensione, pur calma e serena, all'ascoltazione dell'opera "in partenza", valutando, secondo per secondo, l'entità dei suoni e modulandoli all'uopo: tutto questo, per la durata, non certo breve, dell'opera, continuamente informandosi dell' "arrivo" d'onda alle stazioni, tecnico e musicista insieme, direttore d'orchestra, di cori e di masse, sull'immenso palcoscenico della radio, votato al silenzio e all'ombra. Per la cronaca, una splendida luna. La quale ammirava, ammiratissima, la Parigi del 1572 (...) CASALBA.
"Il più intimo, diretto collaboratore di un Compositore e di un Direttore d'orchestra è l'ESECUTORE VOCALE"!!!
Giacomo Lauri-Volpi - CON TOSCANINI: È per me un insigne onore (...) per un artefice della voce cantata, un collaboratore scenico, un esecutore del melodramma, trovarsi qui, in mezzo a direttori d'orchestra tra i più illustri del nostro tempo, a critici musicali e compositori non meno egregi, per l'invito rivoltomi dal Sovrintendente dr. Remigio Paone, con le parole lusinghiere: "A questo convegno, dal quale la figura del grande Interprete possa risultare precisata il più concretamente possibile, quale protagonista di tutto un capitolo fondamentale nella storia della direzione d'orchestra, saremmo lieti che Ella volesse partecipare recando i ricordi della Sua personale conoscenza del Maestro". Questo straordinario convegno, indetto a soli pochi mesi dal cataclisma che ha minacciato di affogare Firenze; la città Fiore del Mondo (così la chiamano in uno splendido libro Papini, Bargellini, Prezzolini e Soffici) (...) è un segno di quanto possano l'amore dell'Arte e la volontà di vivere e fiorire di tutto un popolo che, come il popolo ellenico, diede lezione imperitura al mondo del pensiero e dell'Arte. (...) Ma non è la prima volta che Firenze si rivolge ad un cantore per ricordare un grande musicista. Si sa che il più intimo, diretto collaboratore di un compositore e di un direttore d'orchestra è l'esecutore vocale. È la voce primaria, che non solo interpreta note, ma incarna un personaggio, la "dramatis persona" pur nella finzione che, tuttavia, dà al pubblico il senso della vita nella figura, nel gesto, nella parola scenica, nel suono cantato. Quando si trasferì dal Cimitero di Père Lachaise alla recentemente inondata Basilica di Santa Croce, la salma di Gioacchino Rossini, il Sindaco di Firenze Marchese Torrigiani e il Presidente dell'Istituto Musicale invitarono a parlare, dopo le Autorità cittadine e nazionali, il tenore Tamberlick, venuto espressamente da Parigi a tributare, anche a nome dei suoi compagni, l'omaggio di tutta una generazione di cantanti gloriosi, alla memoria del Cigno di Pesaro. Le sue parole davanti al feretro, riaperto dopo 18 anni dalla morte di Rossini, suscitarono un senso di stupita commozione, espressa da una voce che, dal Maestro, aveva ricevuto consigli, ispirazione, incitamenti per quella nostalgia di perfezione estetica propria dei grandi spiriti. Anch'io vengo da lontano a recare il mio tributo di ammirazione al sommo Interprete, qualificato, giustamente, "protagonista di tutto un capitolo fondamentale nella storia della direzione d'orchestra". Del resto, la storia della direzione orchestrale vera e propria risale ad un secolo. Mi sia concesso riassumerla succintamente. Un tempo le orchestre si riducevano a una limitata famiglia di strumenti. Il dramma cantato era affidato esclusivamente alle voci primarie per le quali, assai spesso, gli autori componevano le loro opere. La supremazia delle voci muliebri e, più tardi, il predominio di quelle dei sopranisti eunuchi, assorbiva l'interesse degli spettatori a tal punto, che la parte strumentale si limitava al pedissequo accompagnamento del canto scenico. Il direttore batteva il tempo. Spesso doveva soggiacere al capriccio delle auree, quanto arbitrarie, gole per le quali non esisteva né ritmo, né stile. Unica legge, il virtuosismo; unica genialità, l'improvvisazione. Ma Rossini limiterà sghiribizzi e ghirigori degli improvvisatori. Comporrà le cadenze lui stesso, e dirigerà talvolta le sue opere emergendo dalla fossa orchestrale. Col "Guglielmo Tell" darà intenso impulso alla trama strumentale, affidando all'orchestra parte concomitante, se non preminente - come avverrà con l'avvento del dramma musicale wagneriano -, nella elaborazione del melodramma tipicamente italiano. Si manifestò allora la necessità di un animatore, di un condottiero della falange strumentale, composta di elementi a corda, a fiato, a percussione, nonché della massa corale, che incominciò a farsi poderosa e ponderosa. Urge che tutti i fili dello spettacolo siano in mano di un solo: di una specie di Demiurgo. Appaiono i primi grandi direttori d'orchestra nella seconda metà del secolo romantico. Non più semplici battitori di tempo con l'archetto o un fascio di fogli in mano. Il Berlioz ne parla argutamente, dopo aver assistito ad un concerto vocale e strumentale a San Luigi de' Francesi in Roma. Si delineano le prime figure dei cosiddetti "maghi della bacchetta", un tantino egocentrici, che non sempre eseguivano ciò che l'autore ha scritto, sostituendosi, in questa attitudine, alla condotta dei tanto deplorati divi del bel canto. Le rivalità tra i protagonisti scenici e i protagonisti del podio, iniziano quell'incrinatura della compagine vocale e strumentale che, qualche decennio più tardi, porterà alla crisi del teatro lirico. Il quale tuttora, e oggi più che mai, ne subisce - sia detto per inciso - le perniciose conseguenze, dalle quali ha tratto vantaggio enorme una nuova figura di esecutore: il "divo" della regia, la cui categoria è salita al massimo fastigio della gerarchia dello spettacolo operistico. Purtroppo le rivalità tra esecutori travolsero, non di rado, l'autorità dello stesso compositore, cioè del vero creatore dell'opera d'arte. Qualcosa ne seppero lo stesso Verdi, Puccini e Giordano e Mascagni. Così ha finito per prevalere nell'animo del pubblico una nuova forza, una oscura forma di pseudo musica e di pseudo canto a base di ritmi elettronici e di voci epilettoidi. Dicevo che fin dai tempi di Verdi, s'inizia l'avvento della prestigiosa bacchetta. Ma i veri direttori d'orchestra riuscirono a prevalere non per sortilegi e virtù esoteriche, ma per devozione e lealtà verso la musica e il compositore. I Mariani, i Faccio, i Mancinelli, i Ferrari, i Mugnone, i Vitale, i Serafin, i Gui, i Marinuzzi, i De Sabata, onorarono il podio. Eccelse il conterraneo di Verdi: quell'Arturo Toscanini che, per oltre mezzo secolo, sbalordì l'universo della musica (...)
(in: LA LEZIONE DI TOSCANINI - Atti del Convegno di studi toscaniniani, tenutosi dal 6 all'11 giugno 1967 a Firenze, nella Sala dei Dugento di Palazzo Vecchio, nell'ambito del XXX Maggio musicale fiorentino - Firenze, Vallecchi ed. 1970 - ristampa anastatica, Parma, agosto 1985; tra i relatori e partecipanti vi erano personaggi come E. Ansermet, M. Carner, G. Confalonieri, F. d'Amico, T. Dal Monte, M. Favero, E. Gara, G. Gavazzeni, R. Leibowitz, E. Lendvai, R. Pampanini, T. Pasero, G. Pugliese, M. Stabile, A. Votto. La relazione intitolata "CON TOSCANINI" inviata dal grande tenore di Lanuvio, Giacomo Lauri-Volpi (da Burjasot, Valenza - SPAGNA), non fu letta al convegno ed appare pubblicata in Appendice agli Atti del Convegno internazionale: sei storiche giornate, in otto sedute, dedicate ad Arturo Toscanini, a dieci anni dalla scomparsa del celebre Maestro parmigiano)
- Il rapporto artistico tra Giacomo Puccini e il suo tenore prediletto: Giacomo Lauri-Volpi (da "Gianni Schicchi" a "Turandot") -
LAURI-VOLPI: Venne la volta del "Gianni Schicchi". La parte di Rinuccio mi calzava a meraviglia e m'era simpatica per il ricordo dell'audizione [con Emma Carelli], in cui cantai, per primo brano, l'inno: "Firenze è come un albero fiorito". Puccini, presente a tutte le prove di pianoforte, non era soddisfatto. Come al solito, la voce si contraeva per l'emozione in sala e perdeva l'ardore e il palpito della sensibilità, che le derivava dalla presenza del pubblico e dall'armoniosità dell'orchestra, a differenza di altre voci che il panico annichilisce sulla ribalta. Mocchi intervenne a tempo: "Maestro, non sa lei che questo giovanotto ha rivoluzionato Roma in quindici recite di 'Manon'? Mi saprà dire quel che penserà quando l'avrà visto e udito in scena". Il grande e buon Puccini non insistette e attese il successo dell'opera; successo che non tardò a venire tal quale l'aveva pronosticato Mocchi. Puccini divenne mio ammiratore e due anni più tardi scrisse questa lettera a Raul Gunsbourg, direttore del Teatro di Montecarlo:
Milano, Via Verdi, 4 (13-1-1922) "Carissimo Raul, grazie della tua lettera. Ho domandato a Lauri Volpi se canterebbe la mia povera Rondinella, 'La Rondine', ch'io voglio risuscitare, e mi ha detto di 'sì'. Gli ho fatto avere la musica della 3a Edizione che è come la prima, ma con piccoli miglioramenti. Per la Lisette, la Signora Ader non potrà farla. Sicchè pensa tu a questa parte. Domenica andrà 'Trittico' alla Scala. Spero molto bene. Ti ringrazio di cuore se rimetterai in scena la mia povera Rondinella - credimo tuo G. Puccini"
A maggio, dopo aver cantato anche al Politeama Fiorentino "Gianni Schicchi", m'imbarcai a Genova per Rio e Buenos Aires con tutta la Compagnia del Costanzi, compresi coro, orchestra e scenari. (...)
L'EQUIVOCO - "Rigoletto" alla Scala con Toscanini Per quindici giorni prove, controprove e antiprove, prove in costume e prova generale ci meccanizzarono, mummificarono, fossilizzarono. Si giunse alla recita (14 gennaio 1922) presi da una forza d'inerzia subcosciente. (...) Il giorno della quinta recita mi ammalai di faringite, che si manifestò con un repentino abbassamento di voce nelle ore pomeridiane. Avvertii sull'imbrunire il Direttore Generale, l'ex baritono Scandiani, il quale, accompagnato da Lusardi, venne al mio capezzale non per esprimere sentimenti amichevoli, ma per redarguire aspramente: "Con quale criterio lei ha osato prevenire all'ultimo momento, a poche ore dallo spettacolo, l'Impresa di un gran teatro, che avrebbe potuto in tempo utile provvedere per sostituirla con uno dei tanti cantanti della sua categoria che sono a disposizione? Come si rimedia ad ora così tarda? Questo è un tranello, un trucco, una rappresaglia. Per la soppressione di una cadenza Lei ha voluto mettere in angustia l'Impresa con premeditata perfidia". Mortificato dal male, irritato dalla ingiustizia dei sospetti, umiliato nella mia dignità di gentiluomo, non potei tollerare oltre tanta violenza e scattai: "Esca immediatamente e non mi costringa a mancarle di riguardo. Se ne vada; altrimenti le scaravento addosso ogni cosa".
Il poveretto, che in fin dei conti compiangevo io stesso per il danno involontariamente da me arrecatogli, non si fece ripetere due volte l'energico invito e partì furioso, minacciando vertenze, processi e fulmini. Toscanini scagliò l'anatema: "Quel ragazzo non canterà mai più sotto la mia direzione". Scandiani a sua volta, giurò: "Quel tenore non metterà più piede alla Scala finchè io ne sarò Direttore Generale". Io rimasi in un fondo di letto per quindici giorni con alta febbre. Quando, levatomi, esplorai la zona minata della Galleria, dovetti cautamente arrestarmi alla periferia dove arrivava l'eco delle detonazioni della maldicenza. Il giudice più benevolo stimava che il mio avvenire lirico era compromesso irrimediabilmente. Per molti anni, infatti, rimasi all'indice e fui classificato fra gli scomunicati reietti della Scala. Si attribuì la interruzione delle recite non al male, ma ad un diverbio che avrei avuto con Toscanini e all'ipotetica mia protesta per l'esclusione della cadenza. Le invenzioni della fantasia collettiva fecero il resto e degenerarono in pettegolezzi degni di isterismi ancillari. Così, una banalissima infreddatura mi creò una atmosfera irrespirabile per circa otto anni nell'Italia Settentrionale e molta gente, coll'andar del tempo, credette e fece credere alla menzogna (su cui gli astuti abilmente specularono giuocando sull'equivoco) di una protesta in piena regola inviatami da Toscanini per motivi artistici, come se alla quinta recita di un'opera alla Scala sia ammissibile un provvedimento siffatto. Non sempre le rivalità adoperano le armi legittime del valore. La calunnia e l'ipocrisia congiurarono attivamente contro l'oggetto della loro persecuzione, soprattutto quando esso occultasi indifeso nella solitudine dell'orgoglio e dell'austerità. Con Maria partii, profondamente amareggiato, per Genova, dove il transatlantico "Conte Rosso" ci attendeva per il viaggio a New York. (...)
A Buenos-Aires, nella medesima stagione, creai la parte del "Principe Ignoto" nella "Turandot", protagonista Claudia Muzio (26 giugno 1926). La direzione del Teatro della Scala aveva vietato a due artisti italianissimi l'orgoglio di eseguire la primissima edizione dell'opera postuma di Giacomo Puccini su scene italiane. Essi furono compensati dall'onore di portarla sulle scene bonearensi e di farne un'interpretazione rimasta indelebile nell'anima degli Argentini e nella storia di quel Teatro. (...) Colla Jeritza creai la "Turandot" anche al Metropolitan. La soprano viennese sbalordì per maturità di preparazione, atteggiamenti imperiosi e felini, impeto drammatico. Non ho mai vista "Turandot" più crudele e adorabile di Maria Jeritza. Toscanini dirigeva in quel momento l'orchestra sinfonica al 'Carnegie Hall'. Una sera cantavo la "Gioconda". La suggestiva romanza, sospirata sulla prua della nave nella notte incantata della laguna veneziana, suscitò emozioni di godimento, oblii di passione e tenerezza infinita in ogni ascoltatore. Toscanini era presente. Il giorno dopo, compiuta l'incisione sui dischi Victor dei preludi del primo e dell'ultimo atto della "Traviata", Toscanini si fece accompagnare al mio albergo dal Segretario Bruno Zirato, il quale così narra l'eccezionale visita: "Siamo venuti a trovarla all'hotel Ansonia. Lei viveva solo, col suo valletto, perché la gentile signora Maria era rimasta convalescente in Spagna. 'Totonno', il suo famosissimo e strano tipo di cameriere, le annunziò la nostra visita con l'originalissima frase: 'c'è chillu luongo, luongo, con nu vecchiu e 'na vecchia'. Lei, venuto fuori dalla sua camera da letto nel salotto, rimase trasecolato di trovarsi alla presenza di Arturo Toscanini e della Signora Carla, consorte del maestro. Il quale di primo acchito le rivolse l'ivito a collaborare con la Scala per il giro a Berlino e a Vienna, sotto la sua direzione. Ella accettò entusiasticamente commosso e il Maestro le espresse gratitudine e compiacimento. Forse Lei non saprà che la sera prima, cantando Lei 'Gioconda' al Metropolitan, il Maestro acquistò per suo conto un modestissimo biglietto di Galleria e di lassù ammirò immensamente la sua eccezionale interpretazione di Enzo e il suo canto magnifico." Bruno Zirato 320 West - 72 Street - New York - City
Nulla debbo aggiungere alla cronaca, che l'amico Zirato si compiacque evocarmi in occasione di una smentita, che i malevoli vollero fare circa l'invito direttamente personale rivoltomi da Toscanini e da speculatori partigiani messo in dubbio. Sì, proprio Toscanini venne in carne ed ossa nel mio appartamento all'Ansonia Hotel. Il gesto gli fa grande onore. Egli dimenticò minacce e anatemi, lanciati contro il giovane Duca di Mantova sette anni prima e lo invitò, maturo, a cantare con lui al Teatro di Stato e di Charlottenburg a Berlino. L'infamato Lauri-Volpi fu il Duca di Mantova e il "Trovatore" del grande giro scaligero. Dio volle che trionfasse su tutta la linea e sgominasse i suoi nemici. Toscanini, grandissimo direttore e sensibilissimo musicista, compresse l'amor proprio e l'egoismo, e per amore alla sua musica, alla sua arte, al suo Verdi e alla sua Scala, capì la necessità di ricondurre all'ovile la pecorella esclusa. Il grande maestro parmense diede prova di saper fare ammenda, trionfando di se stesso. In ciò sta la sua gloria migliore.
(da: GIACOMO LAURI-VOLPI - "L'equivoco", 1938)
N. B. - Come riportato in: Mary Jane Phillips-Matz - "Rosa Ponselle American Diva" - NUP, Boston 1997, pages 221-222, ecco il commento di Tullio Serafin in merito alla performance di Lauri-Volpi nella 'prima rappresentazione americana' di Turandot (16 novembre 1926) con la Jeritza: "I have to add that Giacomo Lauri Volpi was a marvelous Calaf, who, from that night on, made that role his own in all the great theaters in the world".!
E della performance di Lauri-Volpi nel ruolo di Calaf al Met si scriveva sui giornali: "If we had not known him by his princely garb of purple velvet and jade green and the comely figure that he made, we should have known him by the pealing of his trumpet-voice - as Eve, so she told Adam, recognized the tiger by his stripes. Mr. Lauri-Volpi has not forgotten how to fling a high B flat into an enraptured auditorium." - Lawrence Gilman, "The Herald Tribune", November 1, 1927.
'Musica d'oggi', agosto 1928
Serata di gala alla Scala con la ripresa di TURANDOT, con Cigna e Lauri-Volpi (Il Popolo d'Italia, 13 aprile 1935)
'Musica d'oggi', maggio 1935
Martedì 7 ottobre 1941 - VARIAZIONI SCALIGERE - Ritorno di Lauri Volpi - Dal "Sogno" di Manon all'"Esultate" di Otello
(...) Il ritorno alla "Scala" di Giacomo Lauri Volpi, dopo tanti anni di assenza variamente interpretata, merita qualche spiegazione. Nell'attesa mi s'affollano i lontani ricordi: fu proprio in quella sala, testimoni i ritratti di Verdi e di Boito dominanti dalle pareti, che scoppiò il grosso urto con Arturo Toscanini, per la famosa cadenza del Rigoletto. L'opera verdiana aveva trionfalmente rivelato ai milanesi il giovanissimo tenore in una precedente stagione al Dal Verme. Ora il maestro l'aspettava al varco di una personale audizione a tu per tu. Tragica atmosfera di burrasca, nel chiuso e cupo silenzio toscaniniano e nell'ostile accoglienza al tenore sgomento. Finalmente il temibile giudice siede al piano, apre lo spartito, fa cenno d'attaccare. Alla fine della ballata, la cadenza lo esaspera. Batte con forza il pugno sulla pagina. Non parla. Il silenzio si prolunga per qualche minuto. L'ira repressa del maestro si sfoga nel caratteristico torturarsi dei baffi. Ma Lauri Volpi prova l'impressione d'essere lui al posto di quei baffi, sotto quelle unghie che lo fanno rabbrividire. Poi la prova riprende e continua. Ecco il momento della "Donna è mobile"... Lauri la chiude con la filatura che Angelo Masini s'era creata per l'effetto irresistibile, e che, dopo di lui, tutti i tenori avevano, più o meno bene, imitato. La filatura, questa volta, è perfetta. Ma su tanta perfezione scoppia come una bomba l'esplosione di Toscanini: — Ah! No! questo poi no, non lo permetto!... Questa è un'indegnità, un idiota esibizionismo di cantanti buffoni... Tu devi cantare quel che Verdi ha scritto, m'intendi? Alla Scala non si fanno pagliacciate... Lascia pur le varianti agli imbecilli... La sfuriata continua. Lauri incassa e ubbidisce. Dopo le prime recite s'ammala. Una rappresentazione di Rigoletto a teatro esaurito è per forza sospesa. Si attribuisce la malattia, che è vera, a una postuma vendetta del tenore. Invenzioni, deplorazioni, commenti, dilagano in Galleria e fuori. Più tardi egli ne paga il fio. Desiderato e sognato da Puccini vivente come creatore del Principe Calaf di Turandot, nella prima indimenticabile edizione scaligera, viene sostituito dallo spagnolo Fleta. La filatura del Rigoletto si era prolungata oltre il credibile: fino al 1926. (...)
A ventun anni di distanza il tenorino lirico ha compiuto la gamma della sua evoluzione. Dal lontano Sogno di Des Grieux ora erompe il drammatico "Esultate" dell' Otello, che è un simbolico grido di vittoria.
Giuseppe Adami [N.B.: il librettista, assieme a Renato Simoni, della 'Turandot' pucciniana]
(STAMPA SERA - Anno XIX)
In Carmen, all’Arena di Verona, nel 1961 Gabriella Panizza intervistando il giovane tenore Franco Corelli gli chiese: “Durante un’intervista, Lauri Volpi mi ha detto che vai spesso da lui per motivi di studio. Cosa ti colpisce di più in questo grande tenore?”
Questa fu la risposta di Corelli: “Purtroppo mi è stato possibile ascoltare Lauri Volpi [in teatro] solo poche volte. Me ne ricordo una con particolare emozione. Nel ’58, mentre stavo studiando “Turandot”, una sera mi recai a Caracalla per assistere a una recita dell’opera pucciniana interpretata da lui. Ho avuto un vero choc: la parte di Calaf fatta di squilli, di incisività, di canto eroico e di “bel canto” insieme, emergeva completa in tutto il suo fascino; e la prova di Lauri Volpi mi pareva insuperabile. “Turandot” era un’opera scritta per lui e forse per nessun altro. Per un anno chiusi lo spartito, convinto che non avrei mai potuto reggere al suo confronto. Un anno più tardi, spinto dalle continue pressioni degli impresari, accettai di portare in scena quest’opera. Ma l’interpretazione di Lauri Volpi mi è sempre rimasta davanti agli occhi”.