- Il rapporto artistico tra Giacomo Puccini e il suo tenore prediletto: Giacomo Lauri-Volpi (da "Gianni Schicchi" a "Turandot") -
LAURI-VOLPI: Venne la volta del "Gianni Schicchi". La parte di Rinuccio mi calzava a meraviglia e m'era simpatica per il ricordo dell'audizione [con Emma Carelli], in cui cantai, per primo brano, l'inno: "Firenze è come un albero fiorito". Puccini, presente a tutte le prove di pianoforte, non era soddisfatto. Come al solito, la voce si contraeva per l'emozione in sala e perdeva l'ardore e il palpito della sensibilità, che le derivava dalla presenza del pubblico e dall'armoniosità dell'orchestra, a differenza di altre voci che il panico annichilisce sulla ribalta. Mocchi intervenne a tempo: "Maestro, non sa lei che questo giovanotto ha rivoluzionato Roma in quindici recite di 'Manon'? Mi saprà dire quel che penserà quando l'avrà visto e udito in scena". Il grande e buon Puccini non insistette e attese il successo dell'opera; successo che non tardò a venire tal quale l'aveva pronosticato Mocchi. Puccini divenne mio ammiratore e due anni più tardi scrisse questa lettera a Raul Gunsbourg, direttore del Teatro di Montecarlo:
Milano, Via Verdi, 4 (13-1-1922) "Carissimo Raul, grazie della tua lettera. Ho domandato a Lauri Volpi se canterebbe la mia povera Rondinella, 'La Rondine', ch'io voglio risuscitare, e mi ha detto di 'sì'. Gli ho fatto avere la musica della 3a Edizione che è come la prima, ma con piccoli miglioramenti. Per la Lisette, la Signora Ader non potrà farla. Sicchè pensa tu a questa parte. Domenica andrà 'Trittico' alla Scala. Spero molto bene. Ti ringrazio di cuore se rimetterai in scena la mia povera Rondinella - credimo tuo G. Puccini"
A maggio, dopo aver cantato anche al Politeama Fiorentino "Gianni Schicchi", m'imbarcai a Genova per Rio e Buenos Aires con tutta la Compagnia del Costanzi, compresi coro, orchestra e scenari. (...)
L'EQUIVOCO - "Rigoletto" alla Scala con Toscanini Per quindici giorni prove, controprove e antiprove, prove in costume e prova generale ci meccanizzarono, mummificarono, fossilizzarono. Si giunse alla recita (14 gennaio 1922) presi da una forza d'inerzia subcosciente. (...) Il giorno della quinta recita mi ammalai di faringite, che si manifestò con un repentino abbassamento di voce nelle ore pomeridiane. Avvertii sull'imbrunire il Direttore Generale, l'ex baritono Scandiani, il quale, accompagnato da Lusardi, venne al mio capezzale non per esprimere sentimenti amichevoli, ma per redarguire aspramente: "Con quale criterio lei ha osato prevenire all'ultimo momento, a poche ore dallo spettacolo, l'Impresa di un gran teatro, che avrebbe potuto in tempo utile provvedere per sostituirla con uno dei tanti cantanti della sua categoria che sono a disposizione? Come si rimedia ad ora così tarda? Questo è un tranello, un trucco, una rappresaglia. Per la soppressione di una cadenza Lei ha voluto mettere in angustia l'Impresa con premeditata perfidia". Mortificato dal male, irritato dalla ingiustizia dei sospetti, umiliato nella mia dignità di gentiluomo, non potei tollerare oltre tanta violenza e scattai: "Esca immediatamente e non mi costringa a mancarle di riguardo. Se ne vada; altrimenti le scaravento addosso ogni cosa".
Il poveretto, che in fin dei conti compiangevo io stesso per il danno involontariamente da me arrecatogli, non si fece ripetere due volte l'energico invito e partì furioso, minacciando vertenze, processi e fulmini. Toscanini scagliò l'anatema: "Quel ragazzo non canterà mai più sotto la mia direzione". Scandiani a sua volta, giurò: "Quel tenore non metterà più piede alla Scala finchè io ne sarò Direttore Generale". Io rimasi in un fondo di letto per quindici giorni con alta febbre. Quando, levatomi, esplorai la zona minata della Galleria, dovetti cautamente arrestarmi alla periferia dove arrivava l'eco delle detonazioni della maldicenza. Il giudice più benevolo stimava che il mio avvenire lirico era compromesso irrimediabilmente. Per molti anni, infatti, rimasi all'indice e fui classificato fra gli scomunicati reietti della Scala. Si attribuì la interruzione delle recite non al male, ma ad un diverbio che avrei avuto con Toscanini e all'ipotetica mia protesta per l'esclusione della cadenza. Le invenzioni della fantasia collettiva fecero il resto e degenerarono in pettegolezzi degni di isterismi ancillari. Così, una banalissima infreddatura mi creò una atmosfera irrespirabile per circa otto anni nell'Italia Settentrionale e molta gente, coll'andar del tempo, credette e fece credere alla menzogna (su cui gli astuti abilmente specularono giuocando sull'equivoco) di una protesta in piena regola inviatami da Toscanini per motivi artistici, come se alla quinta recita di un'opera alla Scala sia ammissibile un provvedimento siffatto. Non sempre le rivalità adoperano le armi legittime del valore. La calunnia e l'ipocrisia congiurarono attivamente contro l'oggetto della loro persecuzione, soprattutto quando esso occultasi indifeso nella solitudine dell'orgoglio e dell'austerità. Con Maria partii, profondamente amareggiato, per Genova, dove il transatlantico "Conte Rosso" ci attendeva per il viaggio a New York. (...)
A Buenos-Aires, nella medesima stagione, creai la parte del "Principe Ignoto" nella "Turandot", protagonista Claudia Muzio (26 giugno 1926). La direzione del Teatro della Scala aveva vietato a due artisti italianissimi l'orgoglio di eseguire la primissima edizione dell'opera postuma di Giacomo Puccini su scene italiane. Essi furono compensati dall'onore di portarla sulle scene bonearensi e di farne un'interpretazione rimasta indelebile nell'anima degli Argentini e nella storia di quel Teatro. (...) Colla Jeritza creai la "Turandot" anche al Metropolitan. La soprano viennese sbalordì per maturità di preparazione, atteggiamenti imperiosi e felini, impeto drammatico. Non ho mai vista "Turandot" più crudele e adorabile di Maria Jeritza. Toscanini dirigeva in quel momento l'orchestra sinfonica al 'Carnegie Hall'. Una sera cantavo la "Gioconda". La suggestiva romanza, sospirata sulla prua della nave nella notte incantata della laguna veneziana, suscitò emozioni di godimento, oblii di passione e tenerezza infinita in ogni ascoltatore. Toscanini era presente. Il giorno dopo, compiuta l'incisione sui dischi Victor dei preludi del primo e dell'ultimo atto della "Traviata", Toscanini si fece accompagnare al mio albergo dal Segretario Bruno Zirato, il quale così narra l'eccezionale visita: "Siamo venuti a trovarla all'hotel Ansonia. Lei viveva solo, col suo valletto, perché la gentile signora Maria era rimasta convalescente in Spagna. 'Totonno', il suo famosissimo e strano tipo di cameriere, le annunziò la nostra visita con l'originalissima frase: 'c'è chillu luongo, luongo, con nu vecchiu e 'na vecchia'. Lei, venuto fuori dalla sua camera da letto nel salotto, rimase trasecolato di trovarsi alla presenza di Arturo Toscanini e della Signora Carla, consorte del maestro. Il quale di primo acchito le rivolse l'ivito a collaborare con la Scala per il giro a Berlino e a Vienna, sotto la sua direzione. Ella accettò entusiasticamente commosso e il Maestro le espresse gratitudine e compiacimento. Forse Lei non saprà che la sera prima, cantando Lei 'Gioconda' al Metropolitan, il Maestro acquistò per suo conto un modestissimo biglietto di Galleria e di lassù ammirò immensamente la sua eccezionale interpretazione di Enzo e il suo canto magnifico." Bruno Zirato 320 West - 72 Street - New York - City
Nulla debbo aggiungere alla cronaca, che l'amico Zirato si compiacque evocarmi in occasione di una smentita, che i malevoli vollero fare circa l'invito direttamente personale rivoltomi da Toscanini e da speculatori partigiani messo in dubbio. Sì, proprio Toscanini venne in carne ed ossa nel mio appartamento all'Ansonia Hotel. Il gesto gli fa grande onore. Egli dimenticò minacce e anatemi, lanciati contro il giovane Duca di Mantova sette anni prima e lo invitò, maturo, a cantare con lui al Teatro di Stato e di Charlottenburg a Berlino. L'infamato Lauri-Volpi fu il Duca di Mantova e il "Trovatore" del grande giro scaligero. Dio volle che trionfasse su tutta la linea e sgominasse i suoi nemici. Toscanini, grandissimo direttore e sensibilissimo musicista, compresse l'amor proprio e l'egoismo, e per amore alla sua musica, alla sua arte, al suo Verdi e alla sua Scala, capì la necessità di ricondurre all'ovile la pecorella esclusa. Il grande maestro parmense diede prova di saper fare ammenda, trionfando di se stesso. In ciò sta la sua gloria migliore.
(da: GIACOMO LAURI-VOLPI - "L'equivoco", 1938)
N. B. - Come riportato in: Mary Jane Phillips-Matz - "Rosa Ponselle American Diva" - NUP, Boston 1997, pages 221-222, ecco il commento di Tullio Serafin in merito alla performance di Lauri-Volpi nella 'prima rappresentazione americana' di Turandot (16 novembre 1926) con la Jeritza: "I have to add that Giacomo Lauri Volpi was a marvelous Calaf, who, from that night on, made that role his own in all the great theaters in the world".!
E della performance di Lauri-Volpi nel ruolo di Calaf al Met si scriveva sui giornali: "If we had not known him by his princely garb of purple velvet and jade green and the comely figure that he made, we should have known him by the pealing of his trumpet-voice - as Eve, so she told Adam, recognized the tiger by his stripes. Mr. Lauri-Volpi has not forgotten how to fling a high B flat into an enraptured auditorium." - Lawrence Gilman, "The Herald Tribune", November 1, 1927.
'Musica d'oggi', agosto 1928
Serata di gala alla Scala con la ripresa di TURANDOT, con Cigna e Lauri-Volpi (Il Popolo d'Italia, 13 aprile 1935)
'Musica d'oggi', maggio 1935
Martedì 7 ottobre 1941 - VARIAZIONI SCALIGERE - Ritorno di Lauri Volpi - Dal "Sogno" di Manon all'"Esultate" di Otello
(...) Il ritorno alla "Scala" di Giacomo Lauri Volpi, dopo tanti anni di assenza variamente interpretata, merita qualche spiegazione. Nell'attesa mi s'affollano i lontani ricordi: fu proprio in quella sala, testimoni i ritratti di Verdi e di Boito dominanti dalle pareti, che scoppiò il grosso urto con Arturo Toscanini, per la famosa cadenza del Rigoletto. L'opera verdiana aveva trionfalmente rivelato ai milanesi il giovanissimo tenore in una precedente stagione al Dal Verme. Ora il maestro l'aspettava al varco di una personale audizione a tu per tu. Tragica atmosfera di burrasca, nel chiuso e cupo silenzio toscaniniano e nell'ostile accoglienza al tenore sgomento. Finalmente il temibile giudice siede al piano, apre lo spartito, fa cenno d'attaccare. Alla fine della ballata, la cadenza lo esaspera. Batte con forza il pugno sulla pagina. Non parla. Il silenzio si prolunga per qualche minuto. L'ira repressa del maestro si sfoga nel caratteristico torturarsi dei baffi. Ma Lauri Volpi prova l'impressione d'essere lui al posto di quei baffi, sotto quelle unghie che lo fanno rabbrividire. Poi la prova riprende e continua. Ecco il momento della "Donna è mobile"... Lauri la chiude con la filatura che Angelo Masini s'era creata per l'effetto irresistibile, e che, dopo di lui, tutti i tenori avevano, più o meno bene, imitato. La filatura, questa volta, è perfetta. Ma su tanta perfezione scoppia come una bomba l'esplosione di Toscanini: — Ah! No! questo poi no, non lo permetto!... Questa è un'indegnità, un idiota esibizionismo di cantanti buffoni... Tu devi cantare quel che Verdi ha scritto, m'intendi? Alla Scala non si fanno pagliacciate... Lascia pur le varianti agli imbecilli... La sfuriata continua. Lauri incassa e ubbidisce. Dopo le prime recite s'ammala. Una rappresentazione di Rigoletto a teatro esaurito è per forza sospesa. Si attribuisce la malattia, che è vera, a una postuma vendetta del tenore. Invenzioni, deplorazioni, commenti, dilagano in Galleria e fuori. Più tardi egli ne paga il fio. Desiderato e sognato da Puccini vivente come creatore del Principe Calaf di Turandot, nella prima indimenticabile edizione scaligera, viene sostituito dallo spagnolo Fleta. La filatura del Rigoletto si era prolungata oltre il credibile: fino al 1926. (...)
A ventun anni di distanza il tenorino lirico ha compiuto la gamma della sua evoluzione. Dal lontano Sogno di Des Grieux ora erompe il drammatico "Esultate" dell' Otello, che è un simbolico grido di vittoria.
Giuseppe Adami [N.B.: il librettista, assieme a Renato Simoni, della 'Turandot' pucciniana]
(STAMPA SERA - Anno XIX)
In Carmen, all’Arena di Verona, nel 1961 Gabriella Panizza intervistando il giovane tenore Franco Corelli gli chiese: “Durante un’intervista, Lauri Volpi mi ha detto che vai spesso da lui per motivi di studio. Cosa ti colpisce di più in questo grande tenore?”
Questa fu la risposta di Corelli: “Purtroppo mi è stato possibile ascoltare Lauri Volpi [in teatro] solo poche volte. Me ne ricordo una con particolare emozione. Nel ’58, mentre stavo studiando “Turandot”, una sera mi recai a Caracalla per assistere a una recita dell’opera pucciniana interpretata da lui. Ho avuto un vero choc: la parte di Calaf fatta di squilli, di incisività, di canto eroico e di “bel canto” insieme, emergeva completa in tutto il suo fascino; e la prova di Lauri Volpi mi pareva insuperabile. “Turandot” era un’opera scritta per lui e forse per nessun altro. Per un anno chiusi lo spartito, convinto che non avrei mai potuto reggere al suo confronto. Un anno più tardi, spinto dalle continue pressioni degli impresari, accettai di portare in scena quest’opera. Ma l’interpretazione di Lauri Volpi mi è sempre rimasta davanti agli occhi”.
Martedì 7 ottobre 1941 - VARIAZIONI SCALIGERE - Ritorno di Lauri Volpi - Dal "Sogno" di Manon all'"Esultate" di Otello
MILANO, ottobre. Chiedo di Mataloni: non c'è, è in Germania. Non posso dunque avere qualche indiscrezione sul prossimo cartellone della "Scala" nel secondo anno di guerra. Tornerò un'altra volta. Ma mentre esco uno squillo di voce m'investe all'improvviso, da un salone di prova. E' una voce singolare, anzi la più singolare delle voci: schietta, limpida, fresca, piena d'impeto e calore, robusta, travolgente. Voce di grande artista. Mi fermo. Ascolto: Verdi, Otello. Un lampo mi illumina. Interrogo un maestro che passa in quel momento: — Ma non è Lauri Volpi? — Proprio lui.
Ritornano i lontani ricordi
Non m'ero ingannato. Aspetto che finisca. Il ritorno alla "Scala" di Giacomo Lauri Volpi, dopo tanti anni di assenza variamente interpretata, merita qualche spiegazione. Nell'attesa mi s'affollano i lontani ricordi: fu proprio in quella sala, testimoni i ritratti di Verdi e di Boito dominanti dalle pareti, che scoppiò il grosso urto con Arturo Toscanini, per la famosa cadenza del Rigoletto. L'opera verdiana aveva trionfalmente rivelato ai milanesi il giovanissimo tenore in una precedente stagione al Dal Verme. Ora il maestro l'aspettava al varco di una personale audizione a tu per tu. Tragica atmosfera di burrasca, nel chiuso e cupo silenzio toscaniniano e nell'ostile accoglienza al tenore sgomento. Finalmente il temibile giudice siede al piano, apre lo spartito, fa cenno d'attaccare. Alla fine della ballata, la cadenza lo esaspera. Batte con forza il pugno sulla pagina. Non parla. Il silenzio si prolunga per qualche minuto. L'ira repressa del maestro si sfoga nel caratteristico torturarsi dei baffi. Ma Lauri Volpi prova l'impressione d'essere lui al posto di quei baffi, sotto quelle unghie che lo fanno rabbrividire. Poi la prova riprende e continua. Ecco il momento della "Donna è mobile"... Lauri la chiude con la filatura che Angelo Masini s'era creata per l'effetto irresistibile, e che, dopo di lui, tutti i tenori avevano, più o meno bene, imitato. La filatura, questa volta, è perfetta. Ma su tanta perfezione scoppia come una bomba l'esplosione di Toscanini: — Ah! No! questo poi no, non lo permetto!... Questa è un'indegnità, un idiota esibizionismo di cantanti buffoni... Tu devi cantare quel che Verdi ha scritto, m'intendi? Alla Scala non si fanno pagliacciate... Lascia pur le varianti agli imbecilli... La sfuriata continua. Lauri incassa e ubbidisce. Dopo le prime recite s'ammala. Una rappresentazione di Rigoletto a teatro esaurito è per forza sospesa. Si attribuisce la malattia, che è vera, a una postuma vendetta del tenore. Invenzioni, deplorazioni, commenti, dilagano in Galleria e fuori. Più tardi egli ne paga il fio. Desiderato e sognato da Puccini vivente come creatore del Principe Calaf di Turandot, nella prima indimenticabile edizione scaligera, viene sostituito dallo spagnolo Fleta. La filatura del Rigoletto si era prolungata oltre il credibile: fino al 1926.
Un'intensa nostalgia
Ora s'apre la porta della famosa sala e sorridente, ìlare, soddisfatto appare Lauri Volpi. Scendiamo insieme. Mi parla dell'Otello, seconda delle opere che nella prossima stagione canterà alla Scala. La prima è Turandot. Terza sarà I Pagliacci per la celebrazione cinquantenaria di Ruggero Leoncavallo. Ma tutta la grande attesa sfocierà nell'Otello. Mi dice che del Moro di Venezia ha una concezione tutta sua, fatta studiando Shakespeare. Non il solito epilettico ossessionato da una brutale e primitiva gelosia. Otello è un morbido innamorato che si inginocchia in umiltà estatica ai piedi di Desdemona, mentre la Repubblica Veneta si prostra a lui, condottiero vittorioso, che ha schiacciato l'orgoglio mussulmano. Il fondo della sua torturante gelosia è mistico. Vuole salvare l'anima di Desdemona, soffocando in lei quella che crede la colpa terrena, per la salvezza eterna. Sono mesi e mesi che scava e approfondisce il personaggio, psicologicamente e musicalmente.
— Quando — dice — mi sono sentito pronto e sicuro, ho scritto offrendomi alla Scala di cui avevo intensa nostalgia. Ricantare in Italia, nel grande teatro, in una parte che mi rivelasse sotto un completo aspetto di tenore e di interprete, mi pareva un dovere, oltre che un orgoglio, nel momento attuale. Me n'ero andato quando si sferrarono intorno a me, da ogni parte, le più stolide e assurde accuse. Mi si tacciò di iperboliche esigenze di paga, mi si dipinse come un megalomane gigione avideo soltanto di colpi di grancassa pubblicitaria. Mi si tacciò persino di anti-italianismo, io che ho combattuto in pieno tutta la prima guerra, guadagnandomi encomi solenni e il grado di capitano. Tutto questo perchè? Perchè un giorno avevo osato protestare contro la designazione di categoria sindacale dei cantanti, parificati ai datori di lavoro. Perchè esigevo che la mia paga fosse uguale alle massime concesse ad altri due celebri colleghi. Ma soprattutto perchè quando si vogliono inventare leggende intorno al nome di un artista che tale nome s'è creato a prezzo di fatiche, di stenti, umiliazioni, c'è subito un terreno fertile e propizio a raccogliere la semina della malvagità. Le lunghe stagioni all'estero, al Metropolitan, al Colon, in Germania e ultimamente per due anni in Spagna, hanno fatto passare tanta acqua sotto i ponti che anche gli ultimi limacciosi fondi di quella gazzarra sono stati portati via, insieme alla classifica di "datori di lavoro" che ci parificava all'operaio. Oggi siamo anche noi, com'era giusto, tra i professionisti e artisti... Ma non è ciò che nell'ora saldamente, eroicamente, vittoriosamente combattiva della Patria, va considerato. E' invece da considerare che un 'romano de Roma' come me ha il dovere di offrire all'Italia la sua parte migliore: la sua voce, la sua anima, la sua intensa passione, la sua fede. Perciò quest'anno ho voluto, anzi ho insistito, perchè mi si riaprissero le porte della Scala. — E adesso resti qui fino al debutto? — No. Prima del gran pubblico milanese ce n'è un altro che m'aspetta. — Quale? — Quello di Bologna, dove devo sciogliere un voto. — Un voto? — O per meglio dire mantenere una promessa fatta da tempo ai Padri Olivetani di San Michele in Bosco, allo stesso Arcivescovo e al compianto professore Putti dell'Istituto Rizzoli. Ho promesso che avrei cantato, al mio ritorno in Italia, per la ricostruzione delle campane del pittoresco Santuario che domina la Città di Enzo e la ridente plaga emiliana. La mia voce quindi darà voce alle nuove campane, dato che le antiche, con la consueta sbadataggine, se le era messe in tasca il Gran Napoleone... E pensa che tant'anni fa, quando a Bologna, subito dopo Milano, cantai il Rigoletto con tutte le sue brave cadenze e filature, fu proprio scendendo da una passeggiata sulla collina di San Michele in Bosco che, rientrato in albergo, ebbi la magnifica sorpresa di trovare i miei bauli scassinati e svuotati. — Da un ladro? — Press'a poco. Da un impresario di Buenos Aires col quale m'ero reso contrattualmente inadempiente per non rinunciare al Dal Verme che mi offriva l'attesissima possibilità di farmi sentire sul più grande mercato lirico del mondo. Una penale di centomila lire che l'aguzzino cominciò a rimborsarsi con quel sequestro bolognese, dandomi poi la più ostinata caccia in ogni piazza, fino a che non si venne a un pacifico accordo sulle basi d'una nuova scrittura. Immagini la mia desolazione quando constatai che m'avevano portato via tutto quello che allora, dopo tanta miseria, possedevo?
Al "Costanzi" del 1920
L'interrogazione mi rimbalza lontano col pensiero: rivedo Lauri Volpi con in testa, di traverso, un curiosissimo cappelluccio a scacchi che portava alle prove quando giocò la sua prima partita col pubblico del Costanzi nel gennaio del 1920. Emma Carelli, che col marito Walter Mocchi dirigeva il teatro, aveva molta fede in quel ragazzo che usciva dalla scuola del Cotogni di Santa Cecilia. Ma quel ragazzo, acerbo debuttante, preoccupava non poco Rosina Storchio, sulla cui celebrità si fondava l'enorme attesa romana per la Manon di Massenet. Temeva giustamente che quel Des Grieux impacciato e scolastico distruggesse l'importanza dello spettacolo. C'era un'aggravante, per giunta: nella stessa stagione un altro esordiente aveva rovinato l'Iris, sollevando le proteste degli abbonati. Lauri sentiva l'aria gravida di diffidenza e ne tremava. Quando venne il giorno della prima prova con la Storchio, costei non nascose la sua freddezza. Ma a prova finita volle che il tenorino l'accompagnasse all'albergo dove lei stessa gli accennò il sogno del secondo atto con tutte le inflessioni di voce e l'espressione interpretativa che il brano esigeva.
— E' vero — mi conferma Lauri Volpi. — Perfettamente esatto. Ma il mio canto istintivo si ribellava ad ogni ammonimento e ad ogni freno. La Carelli, impressionata, aveva finito col dividere le perplessità della Storchio. Fu allora, dopo la prova generale, che intervenne con impetuosa foga Walter Mocchi: — Cara Rosina — proruppe. — E' inutile ribellarsi. Questo ragazzo deve debuttare. Se vuoi, domani sera, essergli madrina, nel battesimo, bene. Se no un'altra Manon meno diffidente aprirà le braccia alla sua disperata passione.
Un simbolo di vittoria
La Storchio ascoltò quello sfogo imperturbabile. Con fermezza rispose: — Caro Walter, se tu che sei l'impresario e di pubblici te ne intendi hai la convinzione che questo ragazzo vada bene, tanto meglio per tutti. Io sarò felice di incoraggiarlo e di assisterlo scena per scena, in ogni punto, in ogni movimento.
— Ritornai al mio povero albergo, stanco, sfinito, e m'addormentai. Il sogno mio si sovrappose al Sogno di Manon. E sognai quello che era veramente accaduto durante la guerra: una notte ci eravamo rifugiati in una casa diroccata di Lucinico, dove avevamo trovato uno sconquassato pianoforte. Su quel piano m'ero accompagnato a fior di labbro, perchè i morti ed i vivi non udissero, il sogno deplorato. Mi sveglai di soprassalto. Mi dissi: questa sera lo canterò come in quella desolata notte, non con la gola, ma con l'anima. E così fu. Seduto, immobile, ad occhi chiusi, il viso sorridente, mormoravo le parole sul tenue soffio del respiro. E quando arrivai, piegandomi in ginocchio, ai piedi di Manon, al finale, era tale la profondità e la verità della mia commozione che il pubblico balzò in piedi acclamandomi. La battaglia era vinta.
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A ventun anni di distanza il tenorino lirico ha compiuto la gamma della sua evoluzione. Dal lontano Sogno di Des Grieux ora erompe il drammatico "Esultate" dell' Otello, che è un simbolico grido di vittoria.
Giuseppe Adami [N.B.: il librettista, assieme a Renato Simoni, della 'Turandot' pucciniana]
(STAMPA SERA - Anno XIX)
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Il tenore Giacomo Lauri-Volpi ricorda la predilezione di Giacomo Puccini per la sua voce
Testimonianza-audio tratta dall'Intervista a Giacomo Lauri-Volpi realizzata a Burjasot il 25 aprile 1971 con Sergio Saraceni.
(Nell'immagine presente nel video: Giacomo Lauri-Volpi (Calaf) e Claudia Muzio (Turandot) nella "TURANDOT" di Puccini, in prima esecuzione per Buenos Aires - Teatro Colón, 25.6.1926)
Nella sua carriera durata ben 40 anni, Lauri-Volpi interpretò più volte i seguenti sette ruoli operistici pucciniani: "Gianni Schicchi", "La Bohème", "Tosca", "Madama Butterfly", "Manon Lescaut", "La Fanciulla del West" e "Turandot".
Per quanto riguarda l'ultima opera incompiuta di Puccini, ecco la lista delle ventisei produzioni di TURANDOT in cui il grande tenore di Lanuvio ha interpretato dal 1926 al 1958 il ruolo di Calaf, nei maggiori teatri del mondo:
1926 BUENOS AIRES, t. Colon 1926 RIO DE JANEIRO, t. Lyrico 1926 NEW YORK, t. Metropolitan 1926 PHILADELPHIA, Academy of Music 1927 NEW YORK, t. Metropolitan 1928 BROOKLYN, Auditorium 1928 VERONA, arena 1928 NEW YORK, t. Metropolitan 1929 PHILADELPHIA, Academy of Music 1930 NEW YORK, t. Metropolitan 1935 ROMA, t. Reale dell'Opera 1935 MILANO, t. alla Scala 1938 ROMA, t. Reale dell'Opera 1938 CREMONA, piazza del Comune 1939 BUENOS AIRES, t. Colon 1942 MILANO, t. alla Scala 1942 BARCELLONA, t. Liceu 1943 ROMA, t. Reale dell'Opera 1944 BARCELLONA, t. Liceu 1947 ROMA, t. dell'Opera 1950 ROMA, t. dell'Opera 1951 FIRENZE, t. Comunale 1954 ROMA, Terme di Caracalla 1955 BARI, t. Petruzzelli 1956 ROMA, Terme di Caracalla 1958 ROMA, Terme di Caracalla
Lauri-Volpi (Calaf) e Claudia Muzio (Turandot) nella "TURANDOT" di Puccini, in prima esecuzione per Buenos Aires - Teatro Colón, 25.6.1926
Giacomo Lauri-Volpi e Maria Jeritza in 'Turandot' al Met nel 1926
IL MERAVIGLIOSO CALAF DI LAURI-VOLPI, nella testimonianza di Tullio Serafin:
One highly publicized event at the Metropolitan followed in November: the American premiere of "Turandot" with Jeritza as the protagonist and Lauri-Volpi as Calaf. Left unfinished when Puccini died in 1924, the work had been completed by Franco Alfano and given its world premiere, directed by Toscanini, at La Scala in April 1926 with Raisa and Fleta. At the Metropolitan it, like "Vestale", was conducted by Serafin, who recalled the problems he had with Jeritza while it was in rehearsal. He described his "memorable arguments" with her:
«She had a beautiful figure for the Princess Turandot, a face that was hieratic and sensual at the same time; but her voice, even though it was pure and rich, was a little short [on top]. The piano rehearsals all ended up in confrontations between her and me [because] she expected me to change or transpose down Turandot's music, something I would not allow. At a certain point I shouted at her.... That infernal creature, who spoke Italian very badly, said with a little smile, "Serafin is gentlemen and lets ladies get away with their little whims." And I: "Ladies, yes. But prima donnas, no!" And I added, "You're nothing but a bluff: you claim that the role of Turandot is written perfectly for you. Raisa claims that, too. But Raisa can sing it as it is written, and you can't."
She shut up and blushed, as if I had slapped her. But she worked hard, got the top notes, and sang the role exactly as it is written, note for note. Just one more thing about "Turandot": I have to add that Giacomo Lauri Volpi was a marvelous Calaf, who, from that night on, made that role his own in all the great theaters in the world.»
(in: Mary Jane Phillips-Matz - "Rosa Ponselle American Diva" - NUP, Boston 1997, pages 221-222)
Lauri-Volpi e Gina Cigna in "Turandot" alla Scala
Diario di Lauri Volpi, 29 gennaio 1943 :
In
"Turandot", la Cigna, riapparsa dopo un'eclisse passeggera, ha
sbalordito i frequentatori del Reale di Roma. L'incantevole sembianza e
l'abbigliamento superbo han fatto di lei una principessa cinese il cui
ricordo resterà negli annali, quantunque la statura non sia propri di
una "figlia del cielo". Fa piacere a un artista, innamorato dell'arte,
registrare il trionfo di una compagna, che aduna in sé virtù musicali e
vocali fuori dall'ordinario.
Scosso
dai suoni e dalla vista della mia compagna, ho moltiplicato l'impeto
della mia voce per attingere le altezze ispirate all'incantesimo di
luci, di colori e di forme vibranti sulla scena.
Serafin,
preso dalla suggestione generale, si è divincolato sotto la bacchetta,
dimenando la sua umanità minuta. L'ho visto compresso sotto la mole
torrenziale dei suoni, straripanti dal golfo orchestrale e dalla ribalta
incandescente.
(in: G. Lauri Volpi - "A viso aperto", 1953)
Giacomo Puccini - "Non piangere, Liù" (Turandot) - Tenore Giacomo Lauri-Volpi - EIAR, 11 novembre 1941- Live
Lauri-Volpi con Germana Di Giulio in "Turandot" a Roma nel 1950
- Germana di Giulio, soprano: "With Lauri-Volpi, who was to become my frequent partner at the Liceo in Barcelona and the Zarzuela in Madrid, where I returned for many seasons, again it was a totally different form of art. I have never known anyone who worked so seriously and with such love on his vocal production, even in the later years, when he became a sort of myth; and the continual new effects he was able to produce were riveting. Being so deeply interested in vocal production myself, I formed a very close relationship with him. With the retirement of Cigna and Pacetti, I was called upon to sing Turandot everywhere, and I had Lauri-Volpi as a partner in this work very often. His Calaf was no longer a voice but a trumpet because of the formidable vibrations he was able to produce, and yet when she sang Verdi he used a completely different approach. I have read all his books on singing. (...) His 'Voci parallele' is undoubtedly the best." (from a 1979 interview, taken in Milan)
[quoted in: Lanfranco Rasponi - "THE LAST PRIMA DONNAS" - London, Gollancz 1984]
Il tenore Giacomo Lauri-Volpi nel ruolo di Calaf, nella "Turandot" di
Giacomo Puccini rappresentata a Caracalla nell'estate del 1958
In Carmen, all’Arena di Verona, nel 1961 Gabriella Panizza intervistando il giovane tenore Franco Corelli gli chiese: “Durante un’intervista, Lauri Volpi mi ha detto che vai spesso da lui per motivi di studio. Cosa ti colpisce di più in questo grande tenore?”
Questa fu la risposta di Corelli:
“Purtroppo
mi è stato possibile ascoltare Lauri Volpi [in teatro] solo poche
volte. Me ne ricordo una con particolare emozione. Nel ’58, mentre stavo
studiando “Turandot”, una sera mi recai a Caracalla per assistere a una recita dell’opera pucciniana interpretata da lui. Ho avuto un vero choc: la
parte di Calaf fatta di squilli, di incisività, di canto eroico e di
“bel canto” insieme, emergeva completa in tutto il suo fascino; e la
prova di Lauri Volpi mi pareva insuperabile. “Turandot” era un’opera scritta per lui e forse per nessun altro.
Per un anno chiusi lo spartito, convinto che non avrei mai potuto
reggere al suo confronto. Un anno più tardi, spinto dalle continue
pressioni degli impresari, accettai di portare in scena quest’opera. Ma
l’interpretazione di Lauri Volpi mi è sempre rimasta davanti agli occhi”.
Lauri-Volpi sul funzionamento pratico della respirazione diaframmatico-costale nel canto lirico
Uno dei fondamenti base del canto lirico è la respirazione: forse nessuno, in un intero secolo, l'ha descritta così chiaramente come ha fatto il tenore di Lanuvio (Roma), allievo del celebre baritono del secondo '800 Antonio Cotogni, uno dei cantanti maggiormente apprezzato da Rossini e Verdi.
Vediamo come descrive il suo modo pratico di respirare, appoggiare-sostenere, metodo assolutamente italiano ed impiegato da moltissimi grandi cantanti del Novecento.
LAURI-VOLPI SUL FUNZIONAMENTO PRATICO DELLA RESPIRAZIONE DIAFRAMMATICO-COSTALE
Il corpo vitale della voce è l'aria. Senz'aria non si respira; senza respiro non si canta. E non si vive. (...) Saper respirare è saper cantare.
Va notato che vari trattati di fonetica e di pedagogia vocale non s'accordano "sul metodo di respirazione". (...) Tutti si diffondono sui particolari fisici e fisiologici e sulle nomenclature tecniche degli organi della respirazione, della fonazione e delle risonanze. Ma non v'è chi dia all'artista l'idea sintetica e costruttiva della tecnica vocale. (pag. 73)
Nella "respirazione artistica", il soffio è regolato dalla volontà ed è basato sopra il movimento diaframmatico-costale inferiore della respirazione automatica, allo stato di quiete, con la differenza che la "cintura" formata dai vari muscoli dell'addome deve mantenere la sua funzione per la durata del duplice atto respiratorio in virtù del freno inspiratorio nell'allontanamento volitivo e nel riavvicinamento cosciente della parete addominale, dalla colonna e verso la colonna vertebrale.
Nell'inspirazione il diaframma si contrae e, abbassandosi, comprime i visceri addominali, mentre la cavità toracica aumenta di ampiezza; nell'espirazione, il diaframma si rilascia e i visceri addominali, compressi dalla parete addominale, lo sospingono verso l'alto, mentre diminuisce la capacità toracica. (pag. 76)
Il "freno espiratorio costale" è di gran lunga più efficiente ed efficace del "freno inspiratorio diaframmatico", anch'esso fondamentale. Tra freno diaframmatico e freno della cintura muscolare toracico-addominale si stabilisce il "conflitto dei contrari". (...) Dunque, diaframma e cintura muscolare, in lotta fra loro e insieme associati dall'armonia delle facoltà superiori dell'anima, determinano il flusso aereo, parte del quale sarà tramutato in voce laringea e in risonanza di voce melodica.
E qui sorge un altro contrasto: quello delle opinioni, tra loro avverse, degli scienziati della voce. Ma il cantore deve prescindere da elucubrazioni analitiche e applicare l'opinione che nasce dall'esperienza viva del canto e dalle urgenze di problemi che talvolta si presentano improvvisi alla ribalta, nel pieno svolgimento dell'azione scenica e del canto. (pagg. 77-78)
[da: Giacomo Lauri-Volpi - "Misteri della voce umana", 1957]
Qui Lauri-Volpi, uno dei più grandi cantanti oltre che uno dei più grandi esperti di vocalità e tecnica vocale nell'intero Novecento, spiega cosa accade quando il cantante lirico sa respirare bene ed usa il fiato nel modo giusto, sia per quanto riguarda la presa del fiato, in fase inspiratoria, che per quanto riguarda il relativo controllo di questo fiato incamerato, in fase espiratoria. Se si respira "alto" la corretta respirazione non avverrà (e allora si alzeranno le spalle per errore), se si respira forzando i muscoli della parete addominale come quando si cerca di forzare l'ernia (tipica di certi "affondisti") anche in questo caso la corretta respirazione verrà compromessa. Respirare "basso" e "profondo" non impedisce che si alzi un poco anche il torace, specialmente per le donne (cosa del tutto diversa dalle spalle che si alzano nei principianti) - Respirare "basso" e "profondo" non significa nemmeno e non ha mai significato che non si debbano usare i muscoli addominali in modo impegnato per permettere che l'espirazione risulti lenta e costante fino all'esaurimento del fiato.
Quando parla del "conflitto dei contrari", Volpi sta in sostanza citando il Lamperti riferendosi a questo passo tratto dal "A Treatise on the Art of Singing" di Francesco Lamperti - London, 1877 :
“To sustain a given note the air should be expelled slowly; to attain this end, the respiratory (inspiratory) muscles, by continuing their action, strive to retain air in the lungs, and oppose their action to that of the expiratory muscles, which is called LOTTA VOCALE, or vocal struggle. On the retention of this equilibrium depends the just emission of the voice, and by which means of it alone can true expression be given to the sound produced.”
Vediamo ora più nel dettaglio cosa insegna Volpi per le due fasi inspiratoria ed espiratoria.
- Quantità giusta d'aria necessariamente maggiore per il canto lirico rispetto al parlato (I) :
L' "aria" respirabile ordinaria per respiro automatico, nello stato di quiete, è valutata dai fisiologi a "cinquecento cmc.". La capacità massima di inspirazione, nell'atto volitivo, è misurata da un'inspirazione di "tremilacinquecento cmc." d'aria. La differenza tra le due cifre stabilisce la quantità d'aria "complementare" e di "riserva" che si può inspirare. È noto che tra respiro e respiro, nello stato di riposo, v'è una "pausa" ristoratrice che risponde al ritmo respiratorio. L'aria di riserva, così importante nel canto, non viene espulsa nella respirazione automatica. Nella respirazione cantata la pausa di riposo è minima e l'espirazione è composta d'aria "complementare", "ordinaria" e di "riserva", a differenza della respirazione parlata che è di solito formata da poca aria "ordinaria" e di "riserva". Quest'ultima, nella respirazione cantata, deve sostenere, in certi casi, quasi tutto il peso respiratorio. Talché, ancor più che nel parlare, va utilizzato nel canto il massimo d'aria di riserva, a condizione, però, che alla fine della frase musicale e al termine dell'espirazione rimanga tesaurizzata nel mantice tanta riserva di quell'aria quanta sarebbe necessaria per trattenere il respiro ancora per un certo tempo. (pag. 78)
[da: Giacomo Lauri-Volpi - "Misteri della voce umana", 1957]
Respirazione per il canto lirico, descritta da Lauri-Volpi (I)
Qui Volpi sta chiaramente dicendo che la respirazione per il canto lirico differisce da quella ordinaria del parlato, soprattutto in una persona comune che non ha mai studiato canto. Certamente non si deve respirare prendendo una quantità d'aria talmente eccessiva da bloccare rigidamente il cantante, ma il concetto espresso è che non basta prendere poca aria nella maggioranza dei momenti, all'interno di una performance vocale in concerto o in un'opera: i 500 cmc citati non sono molto spesso sufficienti per cantare, a meno che non si debba cantare qualcosa di così corto come ad es. il "Sì" sulla nota mi centrale, all'inizio dell'aria di Mimì, "Sì. Mi chiamano Mimì", ma subito dopo bisogna già respirare di più. Come si deve prendere molto più fiato quando si devono sostenere note molto lunghe, acuti e lunghe sequenze di colorature-agilità vocali !!!
Ma andiamo avanti. Proseguiamo con l'interessante lettura.
- Quantità giusta d'aria necessariamente maggiore per il canto lirico rispetto al parlato (II) :
Confermato che la respirazione deve rimanere del tipo "diaframmatico-costale", l'immissione dell'aria, nel canto, avverrà superficialmente in base ad un'inspirazione d'aria "ordinaria". In altre parole, l'artista cosciente e sicuro di sé canterà respirando naturalmente, regolandosi secondo le esigenze vitali dell'ossigenarsi e quelle artistiche della frase cantata e da cantarsi dopo la pausa. (...) In séguito, esperienza e maturità insegneranno la respirazione spontanea e rapida, divenuta un riflesso automatico condizionato, acquisito nella ginnastica abituale. È lo stesso fenomeno che si riscontra nell'automatica digitazione del pianista. Riepilogando, si può stabilire che, trovato il punto d'appoggio, il suono melodico s'alimenta della corrente d'aria che risulta, abitualmente, da "millecinquecento a duemila cmc." d'aria durante la inspirazione cantata. (pag. 79) Nel canto tutto è un "gioco" d'aria nella pressione infraglottica verso le corde vocali in tensione e nella penetrazione verso le cavità cervicali. (pag. 89) Quanto all'apertura della cavità orale nel canto, va ricordato ch'essa è l'effetto, non la causa, di una giusta emissione, quando il diaframma proietta in direzione delle cavità superiori la colonna d'aria necessaria e sufficiente. È intuitivo che la sola aria ordinaria del respiro vitale, in stato di quiete e di silenzio, non basterebbe a un atto respiratorio di una certa energia. Per la quale ragione, tanto nel respirare parlando che nel respirare cantando, s'immette quella certa quantità d'aria di compenso o di supplemento a sostegno della parole e del suono. Flusso aereo, altezza e densità del suono non debbono nuocere alla libera articolazione e pronuncia della parola. Suono e parola restano paralleli, servendo ciascuno l'espressione dell'idea, in quanto il canto è "fenomeno psichico", intenzionale, oltre che essere "fenomeno fisico". (pag. 80)
[da: Giacomo Lauri-Volpi - "Misteri della voce umana", 1957]
Respirazione per il canto lirico, descritta da Lauri-Volpi (II)
In questa seconda parte del discorso, Volpi sta genericamente stabilendo che l'aria da respirare oscilli nel bravo grande cantante tra 1500 e 2000 cmc; è chiaro che quando si canta non si pensa a quanti cmc prendere, il punto di Volpi è che il quantitativo d'aria usato nel parlato, che di solito quando si parla è molto di meno, non basta per cantare liricamente, poiché quando si parla : - 1) le parole dette durano in media ognuna meno di un secondo, sono brevissime quindi, - 2) si tende a spezzare le parole, non a legare tutte le parole assieme come quando si esegue un "cantabile" belliniano o pucciniano, - 3) e l'estensione della voce usata è limitata a pochissime frequenze centrali, mentre nel cantato si deve cantare su almeno due ottave di estensione e anche di più, se si arriva a note davvero gravi e sopracute.
Egli menziona anche l'importanza di collegare il fiato con le cavità cervicali, cosa che rimarcherà ancora, più tardi negli anni, in questa intervista storica:
Per far funzionare appieno questa respirazione diaframmatica, è necessario, come dice Volpi, usare la "cintura" formata dai vari muscoli dell'addome per frenare lentamente e costantemente la risalita del diaframma che naturalmente salirebbe velocemente tutto in una volta, con conseguente risultato che sarebbe finita l'aria in un secondo solo. L'uso di questo freno addominale deriva chiaramente dalla scuola cotognana, come si comprende da questa testimonianza della Olivero che parlando di Ricci pianista per anni del grande Cotogni, baritono e famoso maestro di canto a Santa Cecilia in Roma, spiega che per sostenere in modo efficace il fiato-suono in fase espiratoria si devono impiegare i muscoli addominali.
Magda Olivero su Cotogni e l'importanza di saper respirare e di sostenere con i muscoli addominali nel canto lirico :
MAGDA OLIVERO : «Cotogni faceva scuola e Ricci era al pianoforte, quindi poi Ricci ha preso anche l'eredità proprio dal maestro, quindi ha assimilato tutte le lezioni di questo grande maestro e diceva Ragazzi, ricordatevi: "Saper respirare e saper sostenere, si sa cantare!". Sembra facile, eh!?! Però, quando si riesce, a farlo, si capisce appunto la bellezza anche di questa cosa, perché allora si canta senza il pensiero di dire: 'Uh, che fatica!' No, non è una fatica, perché i muscoli addominali sostengono il diaframma e il diaframma sostiene questa colonna di fiato che va e cammina, cammina, cammina, tranquillamente e non si fa fatica. Di Ricci io ho sempre un ricordo colmo di gratitudine, perché quello che ho imparato da Ricci non si dimentica.(...) Tanti dicono: 'Saper respirare e sostenere non è mica una cosa così difficile'. E invece è così difficile.»
[da : Marcello Giordani and Magda Olivero: A Conversation About Opera (Part Two) Milano, Italy - June 2010]
Ogni "nota cantata", nelle voci bene emesse ed addestrate, si distingue per la capacità di conservare il suono semplice, o parziale, proprio della vocale alfabetica. Avviene allora che le note più acute conservano il colore aderente ad ogni singola vocale alfabetica e quindi percepibile anche nel fragore dell'orchestra moderna. La vocale cantata assume naturalmente, per ragioni acustiche e tecniche, forma sferica, e dà l'immagine della bolla liquida di sapone spinta dal soffio proveniente dalla cannula.È acquisito che la sonorità della vocale parlata differisce da quella della voce cantata nella pronuncia delle consonanti e nella formazione delle sillabe. Comunemente la vocale parlata, mancando di risonanze, risulta piatta e secca. (pagg. 91-92)
La fonazione è trasformazione dell'aria aspirata in vibrazione. Il soffio, energia vitale del corpo umano è, similmente, la forza, o corpo etereo, della voce parlata e cantata. La differenza tra voce parlata comune e voce cantata sta nel diverso impiego quantitativo dell'aria che si respira. Come il suono è movimento, così il respiro è movimento: cantando, il ritmo respiratorio si fa più ampio e profondo. L'aria "ordinaria" non basta. Si aggiunge l'aria "complementare" e in caso di necessità si impiega la riserva d'aria. (pag. 55)
(...) il timbro, il vero volto che distingue una voce dall'altra, è dato dal "tubo di risonanza", sovrapposto al "tubo pneumatico". Ambedue costituiscono lo strumento vocale propriamente detto. (...) Il suono laringeo ha bisogno di ECO, a immagine delle corde metalliche del piano che al colpo dei martelli, mossi dal tocco delle dita sui tasti, si valgono della cassa di risonanza per propagare e sviluppare le vibrazioni prodotte. (pag. 56) Il pensiero nasce nella mente e la voce nasce dal cervello, in quanto inizio di trasmissione nervosa; e ritorna al cervello, alla base cranica, per proiezione volontaria della colonna sonora nelle cavità frontali e facciali. E' questo un circuito che nella voce parlata presenta minori difficoltà di soluzione che nella voce cantata, la quale esige un più complesso metodo respiratorio e un'estensione di sonorità e un raggio d'azione molto più vasti. (pag. 304)
[da: Giacomo Lauri-Volpi - "Misteri della voce umana", 1957]
Lauri-Volpi - Differenze tra voce parlata e voce cantata
Medaglia d'Oro a - GIACOMO LAURI VOLPI - " IL PIU' VERDIANO DEI TENORI " OVVERO LA " VOCE SOLITARIA " VALE A DIRE IL CANTANTE PIU' TECNICO, ROMANTICAMENTE OTTOCENTESCO DEL PERIODO VERISTA. TANTO CHE MUSICISTI DELLA GIOVANE SCUOLA COME - PUCCINI, MASCAGNI E GIORDANO - LO ESIGEVANO PER I LORO CAPOLAVORI ... Busseto per il 75° della morte di - GIUSEPPE VERDI - ... 12 Giugno 1976 .
Ecco l'invito personale appartenente al nostro carissimo Bruno Spoleti
La "Sala Lauri-Volpi", in cui è raccolta parte dei cimeli della vita artistica del tenore, si trova all'interno del Museo Nazionale di Ceramica di Valencia. A questo museo, Lauri-Volpi e la moglie donarono una preziosa collezione di ceramiche antiche.
(immagine tratta dal video realizzato da Juan José Arias all'Omaggio a Franco Corelli alla Scala nel 2001)
Nell' "Omaggio a Franco Corelli" alla Scala di Milano il 15 ottobre 2001 Corelli ricorda il metodo di canto appreso da Giacomo Lauri-Volpi
- Domanda posta a Franco Corelli: '...ecco, vorrei capire il rapporto tra Franco Corelli e Giacomo Lauri-Volpi...'
Franco Corelli: "E' difficile... è un po' difficile, perché in principio ci sono stati un po' di "incontri e scontri", perché ognuno dice, a un certo momento: 'Ma io c'ho cantato fino ad adesso in questa maniera, perché devo cambiare?' No? Poi, subentra che c'è... diventa anche, c'è una certa amicizia e in quest'amicizia vengono fuori, si chiariscono delle cose, come per dire: 'Beh, no! Questa nota qui non va! Questa non è bella! perchè? è troppo pesante, perché? non squilla, perché? non è così. E allora, diciamo, vengono fuori le verità e piano piano uno capisce veramente i difetti che ha, e cerca, cerca di cambiarli, poi il cambiamento non è una cosa che possa avvenire nel giro di sei mesi, un anno, no! Perché i primi frutti... i primi frutti son cose molto... la gola è una cosa delicata, è una cosa che nasce con noi, quindi... la gola ha una sua maniera propria di agire. Noi sì la cambiamo con la volontà, nel pensiero, perché attraverso la volontà la dominiamo la gola, però molte volte escono bene le note, a volte escono male. Ora, io sono nato, diciamo, con una determinata voce, lui era nato, è nato, con una certa determinata voce, quindi, diciamo, queste cose si possono fare quando i paragoni sono molto vicini. Cioè, innanzitutto lui aveva, non so, cinque-sei note di più delle mie, io arrivavo al do ma lui arrivava su fino al sol sovracuto, quindi c'erano delle altre qualità, il che gli permetteva magari di 'fregarsene' di determinate note centrali e ti prendeva questi acuti splendenti, cioè lui riversava tutte le sue qualità in questi acuti... (...) perché io ne ho sentiti, alcuni acuti di Lauri-Volpi che cantava a Roma, dal loggione, beh erano delle schioppettate e arrivavano anche alla 'vibrazione', ché la 'vibrazione' è importante... ma, diciamo, lui utilizzava la voce con molta gentilezza, mai con... e questo faceva parte dell'origine, della nascita di questa voce, io non avevo quella, purtroppo, e non potevo non imitarlo ma non riuscivo perfettamente a farlo, perché lui lo faceva, lui diceva praticamente, "qui dò fiato e canto venti secondi", e io no, io c'ho il fa, e lo devo riempire (...) quindi aveva, sì, da dirmi sempre, sì, suoni eccezionali, questi acuti... però andavan provati, mi rimaneva difficile, perché c'era un DNA differente, in poche parole, ecco, però Lauri-Volpi... (...) non è che si risolva un sistema in qualche mese di studio, le cose si risolvono negli anni (...) il metodo di laringe che adoperava Del Monaco era sicuramente un metodo che gli aveva dato dei grandi risultati, specialmente quello della timbratura della voce, e anche gli dava un bel colore di voce, però gli toglieva le dolcezze, le dolcezze... lui raramente legava, io invece ho trovato le qualità mie nella legatura, io dopo diversi anni che cantavo (...) attraverso la legatura io mi sono... ho dato un colore più bello alla mia voce. (...) io sono arrivato al 'romantico' per il semplice fatto che per togliere l'asprezza che c'aveva la voce, per togliere quella 'eheheheh', per addolcire e legarla bene (...) ho voluto fare un legatura molto bella, molto evidente che mi ha aiutato a fare cose molto più belle, più interessanti!"
cfr. quanto affermò nel '71 sempre Corelli: "Non ho difficoltà ad ammettere che all'inizio della carriera cantavo pessimamente. E' la pura verità. E poi non creda che ai tempi del Pirata avessi già risolto tutti i miei problemi. Avevo soltanto cominciato a risolverli. C'è differenza. Non li ho risolti completamente nemmeno adesso. Questa è la verità."
(CORELLI: UN UOMO CHIAMATO TENORE di R.Celletti - dalla rivista "Discoteca", numero 111 del giugno 1971)
Giacomo Lauri-Volpi è stato uno dei massimi tenori di tutti i secoli, ma parallelamente alla sua carriera e specialmente dopo il ritiro dalle scene avvenuto nel 1959 è stato anche un eccellente esempio-modello di "maestro" di Bel Canto.
Lo dimostrano le testimonianze sulle quali invitiamo tutti a riflettere con attenzione:
BREVE LEZIONE DI CANTO (1933)
Testimonianza del soprano Adelaide Saraceni su Lauri-Volpi, che lo definisce "grandissimo maestro di belcanto":
"Gratia artis naturam perficit", ovvero il tenore francese Vergnes salvato da Giacomo Lauri Volpi !
<<Ho cenato con Vergnes, il tenore dell’Opéra Comique. Voleva conoscere il segreto di certi suoni. Teoria e pratica lo hanno scosso con l’evidenza. “Gratia artis naturam perficit”, è il mio motto, gli ho detto. La natura, priva della grazia dell’arte, non resiste da sola e si associa volentieri al caso. Finché va, va. Poi vacilla, declina, dilegua. Suono e parola vivono paralleli e simultanei nel canto. Un suono in gola e la parola smorta sulla bocca inarticolata, fanno un rumore; la parola, fuori dalla sfera sonora, è un’ombra insignificante. Trovare il punto esatto di risonanza è indispensabile. Il resto viene da sé. E gli ho fatto sentire le varie emissioni; boccale, gutturale, nasale, ventriloqua e infine la vera, la spontanea e sicura, che sulla continuità della colonna d’aria, sospinta e sorretta dal diaframma verso la volta palatale, modula suoni e articola parole in perfetta libertà, dentro il giuoco aereo della cavità di risonanza: parallelismo della parola e del suono. Vergnes che canta da vent’anni s’è accorto dell’erroneo cammino percorso. Nuove idee gli hanno svelato la ridicola tirannia delle vecchie, da lui seguite con pertinacia esiziale che l’obbligavano a una perpetua ricerca, visibile agli spettatori, e ne facevano un tristo fantoccione in cerca di suoni. Un Diogene armato di lanterna alla ricerca dell’uomo. “Hai dato – mi grida – un tenore alla Francia. Sono salvo. Mi hai salvato tu. C’est épatant! unique!”>>
(da: G. Lauri Volpi - “A viso aperto”, Corbaccio, dall’Oglio editore, 1953, pag. 172 - Diario, 14 novembre 1947)
BECHI e NERI Esempio pratico e Consigli tecnici di Giacomo Lauri Volpi verso Bechi e Neri in occasione di Aida:
<<Ieri mi sentii davvero male: temevo di non poter partecipare alla vespertina di Aida. Per contro, nessun cenno di pericolo o di sbandamento: una recita perfetta, oltre ogni speranza.
Bechi e Neri ne rimasero entusiasti. Il primo, con edificante umiltà, mi disse: “Scusi, Lauri-Volpi, cantando con lei. Cerco d’imitarla, di articolare, di dire e riesco ad ottenere sonorità nuove ed efficacissime. Ricorda il nostro Rigoletto del 1942 a Genova? Lei mi disse che rubavo le sue emissioni. Proprio così. Ma quando canto con altri, me ne scordo e ricado nel mugolìo dei suoni. Dovrei sempre cantare con lei.” Ho ringraziato il simpatico compagno della fiducia e gli ho ricordato che la monumentale gloriosa voce di Titta Ruffo durò in forma non più di 14 anni, a causa di quella fonazione che rilascia i muscoli facciali e orali ma appesantisce il fiato e stronca il diaframma, costretto a sopportare tutto lo sforzo del canto, essendo privo del sussidio verbale. La parola umana va espressa con chiara, articolata dizione, essenziale nella fonazione scenica del melodramma. Titta Ruffo nel 1922, cantando con me Il barbiere al Metropolitan, confessò che stentava a reggere la tessitura non già per decadenza vocale ma per deficienza di fiato. Per sorreggere l’enorme colonna sonora non valeva più la resistenza d’un diaframma duramente provato. Anche la voce più ricca di timbro, deve cedere di fronte ad un diaframma ribelle. La stessa disavventura toccò a Bernardo De Muro e a Fleta.
Il Neri, intimidito dal “fa” acuto della frase “folgore, morte”, mi domandò ieri consiglio. Quel “mo” di “morte” lo impensieriva. Gli suggerii il modo di proiettarlo e il “mo” scattò possente e sicuro. Neri me n’è grato. Dunque: i miei principii incominciano a illuminare queste voci meravigliose, queste menti cercatrici di verità. Esse meritano di conoscerla; ed io ho l’obbligo di svelare quello che so, non per scienza infusa, ma per dura esperienza.>>
(da: G. Lauri Volpi - “A viso aperto”, Corbaccio, dall’Oglio editore, 1953, pag. 434 - Diario, 14 gennaio 1952)
DEL MONACO Lauri-Volpi affronta e risolve magistralmente l'esecuzione del si naturale acuto sulla vocale U della parola "uragano" - nell' "Esultate" dell'Atto I dell' "Otello" di Verdi !!!
(...) bisogna che la gola sia indipendente dall'articolazione (...) Tutte bisogna dirle le vocali, tutte le parole; se uno domina la gola, vale a dire che la colonna sonora è sempre quella intatta, i raggi sonori si proiettano sulla cassa cranica e allora sono indipendenti dalla articolazione. La vocale "A", diceva Rossini, è la regina delle vocali. I francesi non hanno un' "A" sonora come la nostra, nessuna lingua; la vocale A italiana ben messa è di per sé stessa una musica, diceva Rossini. (...) perché la "A" tiene tutto il condotto aperto.
(da una intervista di Sergio Saraceni, Roma 1962)
cfr. "Accomodamento della A nel Canto Lirico secondo Giacomo Lauri-Volpi" (da: "Misteri della voce umana", 1957)
(...) Del Monaco ha sempre serbato un ricordo deferente verso l'anziano collega, al quale, telefonando, una mattina, dall'Hotel Plaza di Roma, volle svelare un suo segreto: «Vuol sapere, confessò, perchè mi decisi a studiare l' "Otello"? Già mi ero deciso a rinunciare alla carriera, dopo una disavventura nella "Gioconda" al Liceo di Barcellona, quando ebbi la ventura di ascoltare il suo disco dell' "Esultate". Notai il modo di emettere quel terribile "fa diesis" su cui poggia l' "a" della parola "uragano", che non si sa se vada "aperta" o "chiusa". Mi misi ad imitare il suo suono in quella nota e a forza di studio, riuscii ad allineare tutta la gamma sul quel suono con lo stesso colore. Così mi fabbricai una voce per l' "Otello"; l'opera della mia fortuna». (...) Quanti hanno sentito quella mia nota! Eppure non ci hanno fatto caso. Per Del Monaco fu la salvezza. (...) Caso del tutto diverso, quello di Corelli, al quale rivelai, per giornate intere, il perchè di certa fonazione, a differenza di un'altra, con immediata dimostrazione vocale sulle più varie romanze del più famoso repertorio. Nella mia "Terza età", così la chiamano i gerontologi, mi sento orgoglioso di aver giovato ai due più quotati e scattanti tenori dell'ultima generazione lirica. (...) Quante voci si sarebbero salvate negli ultimi anni, se i giovani artisti avessero, come Del Monaco e Corelli, studiato sui vecchi: interrogato, imitato, amato i vecchi?
(da: G. Lauri-Volpi - "Il 'nipotino' di Otello" - Musica e Dischi, novembre 1968)
Lauri Volpi "nonno del bel canto" invitato ad insegnare al Bolscioi di Mosca :
22 marzo 1971 (...) posso talvolta distrarmi un poco con la corrispondenza, che mi viene anche da paesi lontani, e persino d'al di là della cortina di ferro. Proprio stamane arriva un'aerea da Kiev (55 Brest Litovsc - 10 ap. 238). Un tal Vladimiro Mircotano inizia il suo biglietto con un saluto di questo genere: "Buon giorno carissimo nonno del bel canto" (sic). Ha una calligrafia chiarissima e si esprime in un italiano singolarmente preciso per uno slavo dell'URSS. Quel buongiorno al principio del messaggio vale un Perù. E prosegue: "Mando a lei i miei saluti cordiali e migliori auguri. Io sono tenore e lavoro in opera. Io molto ascoltato di Lei e vorrei conoscersi personalmente. Scusatemi molto che conosco poco italiano e non potrò spiegarsi perfettamente. Mi molto interessato tutto da Lei, dischi con sua voce, e fotografie anche i libri per teoria di canto. Vorrei tradurre in russo e raccontare di Lei in URSS... Se avete i materiali che io descritto speditemi per favore... Sarò molto felice. Scusatemi per disturbi. Vi abracia Suo buon amico Vladimiro". Non è interessante, Maria, sapere che in una nazione dove non ho mai cantato, soggetta a un regime che nega la vita soprannaturale, ci sia qualcuno che conosca la mia voce e mi chiami "Nonno del bel canto" con ingenua venerazione, e richieda i miei libri, ispirati alla metafisica della arte canora?
15 maggio 1971 Mi scrive un altro russo: Micailo Holovacenco, di Kiev, Via Ruschiuskaja, 10, ap. 3. Domanda informazioni anche lui su Solomea Crusceniski, sua connazionale. Nel 1973 cade il centenario della nascita della cantatrice che in Italia raggiunse chiara celebrità. Il russo è convinto ch'io abbia cantato a fianco della soprano. Ciò che non è. Testualmente scrive: "Io raccogliere molti ricordi, mi sembra che Lei in memoria di celebre cantante vorrà evocare ricordo da Lei. Lei molto celebre e noto uomo in tutto il mondo anche in URSS. Lei siete autore di libri per metodo di bel canto... Carissimo Maestro, io spero molto, soltanto per Lei, Lei è mia speranza; io credo che Lei aiutami. Per questo sarò molto grato, Lei potrete entrare in Storia della cultura ucraina e mio popolo sarà molto riconoscente... Io molto prego Lei come mio padre, aiutami in questo affare... Suo buon amico Micailo Holovacenko". L'altro russo, che si rivolse a me con la stessa richiesta si chiama Vladimiro Mircotano - Brest - Litovsk, 10, apt. 236 Kiev 252053 URSS. Ambedue m'invitano a insegnare al Teatro Bolscioi di Mosca. E' impressionante lo spettacolo che mi offre l'ammirazione che mi tributano giovani artisti, critici e scrittori da ogni parte del mondo: americani, australiani, cinesi, indiani, sud africani e europei occidentali e orientali. Quando si riflette che Titta Ruffo, Stracciari, Schipa morirono in miseria e ignorati dalla giovane generazione, non si può negare che la Provvidenza, conservando questa voce e sostenendo questa penna, abbia voluto attestare la sua assistenza a un artista che la implorò fin dai tempi della maturità e che, ora, è felice di proclamare ai quattro venti la sua esistenza, senza temere le reazioni degli increduli e dei propagandisti dell'ateismo. Queste notizie saranno da te gradite, Maria. E' a tutti noto essere stata tu la collaboratrice della Provvidenza nell'ispirarmi il "metodo metafisico" della fonetica vocale e artistica, al quale debbo l'integrità polmonare che mi consente, con poco fiato, di sostenere ancora la colonna sonora nella esecuzione delle "arie" famose nel repertorio romantico e verista, oggi, alla mia tarda età.
(da: G. Lauri Volpi - "Parlando a Maria" - Trevi Editore, Roma 1972)
13 giugno 1971 : E' venuto quel Claude Thiolas che insegna canto a Treviso basandosi sul tuo metodo, Maria, esposto e commentato nei miei libri. Lo accompagna il tenore scaligero, che vorrebbe ascoltarmi e ricevere suggerimenti per rinnovare il caso Corelli. Ma io non mi son fatto udire da uno che ha studiato con altro tenore. Se, cambiando l'emissione, appresa da questo, per imitare la mia, dovesse peggiorare, mi si darebbe la colpa. Se dovesse migliorare, darebbe il merito a se stesso per non inimicarsi il maestro. Avrei tutto da perdere. Non dubito che tu, Maria, sia d'accordo con la mia decisione, giacché fosti sempre restia a che io svelassi i tuoi segreti canori agli altri, che immancabilmente ignorano spesso e obliano volentieri il bene ricevuto. Quel tenore ha robusta voce, ma non conosce il lancio del suono e l'eco del suono. Lirico, si dà alle opere drammatiche. Faceva il pugile, prima d'intraprendere la carriera lirica. E' rude e dimostra di non capire quello che canta. Viso ermetico, refrattario al sorriso. Dizione incolore. Niente mezze voci e sfumature. Ha scoperto il punto di risonanza, ma non apre la gola, e non sviluppa il suono con l'impiego degli armonici. Forza gli acuti. Ma tenori non sovrabbondano. E guadagna milioni. E' arrivato qui, dopo aver percorso duemila chilometri, in un'automobile tedesca di dieci milioni di lire. Con tanti quattrini che bisogno ha di studiare? Thiolas si è compiaciuto della franchezza con la quale ho espresso le mie idee. La prossima volta – mi dice – verrà solo.
(da: G. Lauri Volpi - "Parlando a Maria" - Trevi Editore, Roma, 1971)
CORELLI Come ricorda Franco Corelli in un’intervista RAI tratta dalla trasmissione TV “Il protagonista” dell’aprile 1979:
« Mi sono presentato a Lauri-Volpi, mi ha ricevuto qui nella sua Villa di via Nomentana, ricordo ora, ricordo come allora. Mi ha ricevuto, molto simpaticamente, e mi ha ascoltato, gli sono piaciuto, diciamo. Lui diceva che ero umile, ma non era questione di umiltà, era questione che quest'uomo sapeva molte cose ed io volevo apprendere da lui. E mi disse: "Senta, Corelli, adesso qui forse è un po' tardi, io vado a Valencia, perché non viene giù?" E disse: "A Burjasot abbiamo maniera di stare insieme e vediamo di concretare quello che lei mi chiede”. E così cominciò il “pellegrinaggio” a Burjasot. Un anno, il primo anno dieci giorni, il secondo anno venti, il terzo anno trenta. (…) Si iniziava così: io facevo una frase, o un vocalizzo, lui immediatamente la riprendeva. E mi diceva: “Guarda, noi non ci fermiamo mai, cioè: fino a che io non mi fermerò, tu la dovrai rifare, perché solo allora, in questa maniera, tu capirai che la nota, o il vocalizzo, la frase, va bene”. E allora era un vocalizzo dietro l’altro, una frase dietro l’altra. (…) perché capitavano quelle frasi che... perché non so quante volte noi avremo fatto la frase della Bohème “…la speranza”).
Il segreto di Lauri Volpi, passato a Corelli, per non avere difficoltà negli acuti !
<<I visited Lauri-Volpi at his home at Burjasot, near Valencia, to ask him for advice about my singing. He thought my voice was too heavy and that I compromised my ability to have a good climax on high notes by singing my center too loudly. He wanted my voice to float more. (...) Each year for thirteen years I spent a month in Valencia studying with him. (...) He would say, “Corelli, remember, the aria is three or four minutes long. In ninety-five percent of the cases the high note is at the end. The more you push in the middle voice the more difficulty you’ll have on the high note. When you do the high note well the public applauds. When you don't it doesn't.”>>
<<Andai a trovare Lauri Volpi a casa sua a Burjasot, vicino a Valencia, per chiedergli dei consigli sul mio canto. Riteneva che la mia voce fosse troppo pesante e che, cantando nel centro troppo forte, io mi pregiudicassi la possibilità di raggiungere un autentico apice negli acuti. Voleva che la mia voce galleggiasse maggiormente. (...) Ogni anno, per tredici anni, ho passato un mese di tempo, a Valencia, studiando con lui. (...) Egli mi diceva, “Corelli, ricorda, un'aria dura tre o quattro minuti. Nel novantacinque per cento dei casi l'acuto è alla fine. Più spingi nella voce media più difficoltà avrai sull'acuto. Quando fai bene l'acuto il pubblico applaude. Quando non lo fai bene non applaude.”>>
(da un'intervista audio a Franco Corelli, nel programma radio newyorkese "Opera Fanatic", condotto da Stefan Zucker, del 9 giugno 1990)
Lauri Volpi : VACANZA DI CORELLI IN TERRA SPAGNOLA
Su "Momento-sera", quotidiano del pomeriggio edito a Roma, Lauri-Volpi scrisse ben 217 articoli intitolati “Incontri e scontri”. In quello datato 3 ottobre 1963, ed intitolato “Vacanza di Corelli in terra spagnola”, egli nel paragrafo “Problemi del canto” scrive:
<< (…) le giornate valenciane degli amici Corelli non sono tutte trascorse in svaghi e curiosità turistiche. Si è pure studiato sodo, quasi con accanimento. (…) Egli [Corelli] è venuto a discutere problemi d’arte e di fonazione in piena sincerità e libertà: problemi che, non risolti nelle scuole, hanno portato alla paralisi del teatro lirico e alla perdita di voci bellissime dopo soltanto una decina d’anni di carriera. Corelli ha una voce che merita di durare a lungo, se non altro per rinverdire una tradizione che è stata abbandonata con la conseguente decadenza del melodramma. In dieci giorni, noi due ci siamo dati, anima e voce, a risolvere quei problemi seduta stante, durante circa due ore diarie (…) Vedevo la consorte del mio collega assiduamente attenta, sempre indaffarata a prendere appunti, a porre ogni tanto quesiti, a controllare quale delle soluzioni prospettate e dimostrate fosse la più convincente e evidente secondo le risonanze percepite. Ella ha approvato il modo di superare una difficoltà nella romanza della “Manon Lescaut” di Puccini che Corelli non ha ancora osato affrontare in pubblico, per timore di una sola frase: “A nuova vita l’alma mia si desta”. Il salto di “quinta” gli sembrava un ostacolo insormontabile, tra l’A e Nuo. (…) Nella Luisa Miller nella Turandot nel G. Tell nell’Aida nel Trovatore nella Bohème, la casa ha rintronato al bombardamento delle due voci. E la gente sostava sotto le finestre a sentirle. A poco a poco, negli ultimi giorni, sembravano una sola voce. E’ bello, stupendamente bello e onesto vedere due anime e sentire due voci che si fondono. Ma Corelli contesta: “E’ vero, adesso la mia voce si mimetizza con la sua, per suggestione e imitazione. Ma, lei assente, non ricadrò io nelle vecchie abitudini? Dovrei portare lei via con me, in una valigetta”. Scoppiamo tutti in una risata omerica. L’importante è che Corelli abbia capito. Quando potrà studiare, da capo a fondo, un’opera mai prima cantata, egli saprà, alla luce della nuova esperienza, sottrarsi all’abitudine di una fatica eccessiva nell’emissione vocale. Del resto, ha avuto davanti a sé la viva voce di un uomo che durò a lungo sulla scena lirica e serba intatte le proprie capacità. >>
(da: VACANZA DI CORELLI IN TERRA SPAGNOLA - Incontri e scontri di Giacomo Lauri Volpi - Articolo apparso su "Momento-sera" del 3 ottobre 1963)
Nel 1967 apparve un articolo di G.Lauri-Volpi sulla rivista di Milano “MUSICA E DISCHI”, intitolato “A lezione dal veterano", che ci testimonia la relazione costante di studio e perfezionamento vocale tra Lauri-Volpi e Corelli! Eccone uno stralcio centrale:
<<Debbo parlare di me, perchè Corelli, nell’autunno del 1963 e nel successivo del 1964, venne a farmi visita, con la consorte, qui, nel mio rifugio spagnolo. Si trovava in piena angosciosa crisi di coscienza artistica circa la tecnica dell’emissione vocale e della respirazione cantata. Crisi di coscienza, che si rifletteva sulla sua struttura fisica e il suo stato psicologico, che lo induceva, nella pienezza della rinomanza e dei giovani anni, alla delusione e al pessimismo. Imperversava la baraonda dei festival e delle voci strampalate di esseri strani che gareggiavano nello strillo, nella sciatteria del suono e delle parole, rispettando soltanto un ritmo incalzante: ritmo spietato come una maledizione. Nell’800 emersero i “poeti maudits”; ma tra essi svettavano geni luminosi, creatori di versi fragranti di melodia verbale: un Baudelaire, un Verlaine, un Rimbaud: “fiori del male”, ma carichi di effluvi inebrianti. In questo caotico ‘900, pullulano gli “chanteurs maudits” che imprecano, protestano, si drogano, si suicidano e fanno scempio di corpi e di anime. In tanto trambusto, anche il più accorto e affermato servitore del Melodramma avrebbe subìto un opprimente sconcerto; una specie di “dubbio logico” ed anche “metafisico”. Corelli temeva di smarrire la diritta via. Alcune note di famose romanze sfuggivano al suo controllo. Ed era sul punto di non poter più contare su di sé e il suo avvenire. Decise allora di recarsi a interrogare un veterano che conobbe l’epoca aurea del canto. E venne qui con la sua Ferrari, immagine della fretta esistenziale. Anche Corelli aveva fretta: fretta di scrutare, sapere, conoscere per decidere se dovesse continuare o smettere. Il caso era pressante e, insieme, singolarmente patetico. Si trattava di distruggere un intimo “complesso” a furia d’immediata reazione e con un bombardamento mattutino di prove e riprove, imitazioni, discussioni, esempi. Per quindici giorni, tre ore al giorno, dalle undici alle due, mi sottoposi, accompagnandomi al piano (la fotografia lo dimostra) all’improba fatica di eseguire le più famose, ed aspre per tessiture, romanze del repertorio: dal “Guglielmo Tell” ai “Puritani”, dalla “Gioconda” agli “Ugonotti”, dalla “Turandot” alla “Manon” pucciniana. Sempre a voce spiegata, sempre seduto. Ed egli ripeteva, dapprima timoroso e dubbioso, poi sempre più docile e franco, imitando alla perfezione, tanto che alla fine, chi ascoltava dal di fuori, non distingueva più quale delle due voci appartenesse all’uno o all’altro. La teoria, i principi, le idee non bastavano. Soltanto l’esempio immediato poteva condurre a rimorchio le note che, per oltre 15 anni, erano abituate a una respirazione e a un attacco discutibili, per cui la colonna sonora subiva indecisioni e imprevedibili sorprese. Il primo anno della nuova esperienza diede buoni frutti, ma tuttavia incerti. Corelli aveva bisogno di sentire la voce dell’ultrasettantenne, capace in qualunque ora di lanciare suoni nitidi e sicuri, che destavano in lui curiosità e incredulità, quasi che si trattasse di un trucco o di un gioco di prestigio. Nel secondo autunno, l’esperienza fu rinnovata. I dubbi si dissiparono. Corelli riuscì a maturare le idee basandole sulla evidenza ormai riconfermata e assodata. Volle ascoltarmi anche nell’ “Ave Maria” di Gounod e in “Mercè, cigno gentil”. Ripetè e imitò, non senza esitazioni, cantando sul respiro. Ma, tornato a New York, incise in dischi le varie romanze, eseguite secondo la nuova emissione con risultati incontestabili. Karajan, a Vienna, gli disse: “Cosa ha fatto? Lei è un altro Corelli. Magnifico”. Non è bello lettore, fare del bene spassionatamente, disinteressatamente, svelando segreti, scoperti in 45 anni di carriera? Tutti insegnano ma nessuno svela i propri misteri.>>
(da: “MUSICA E DISCHI”, dicembre 1967)
“La sera della mia prima Tosca è venuto ad intervistarmi un radiocronista della più importante stazione radiofonica d’America e del Canadà in lingua italiana. La domanda che mi ha posto è stata la seguente: “A che cosa deve Lei, Sig. Corelli, una carriera così longeva?”. Al “longeva”, caro Commendatore, mi sono messo a ridere ed ho risposto: “Che cosa vuole che siano i miei quindici anni di carriera in confronto dei quaranta o più anni che hanno avuto “i grandi” dell’epoca d’oro della lirica?”. - “No, Sig. Corelli, intendo dire che in questi ultimi anni, molti tenori, sono usciti e sono balzati in poco tempo alla popolarità, però, nel giro di pochi anni, si sono trovati nella parabola discendente, oppure, alcuni di questi, hanno già smesso di cantare. Quindi quello che volevo sapere da Lei, è, come fa a ritornare qui in America ogni anno, non solo in piena voce, ma direi, in forma sempre migliore?”. “Caro Signore” ho risposto, “la Sua è una delle poche domande che mi piacciono e Le risponderò molto semplicemente. Il canto è un sacrificio e bisogna sacrificarsi per durare a lungo, ma la cosa più importante è trovare la strada e la mia strada sta in Spagna, Valencia, Giacomo Lauri Volpi. Lei conosce questo famoso tenore, è lui che indica il cammino da seguire, un vocalizzo io, un vocalizzo lui, una frase io, una frase lui, e in questa maniera che si potrebbe definire una gara vocale io cerco di imitarlo e di rubare quanto più posso dalla sua splendida voce e dal suo ineguagliabile imposto”. Questa in poche parole è stata la mia intervista sul palcoscenico del Met alla prima di Tosca.” (da Lettera di Corelli a Lauri-Volpi datata 6 nov. 1968)
Nel 1971 in un ultimo articolo corelliano scritto da G.Lauri-Volpi sulla rivista di Milano “MUSICA E DISCHI”, intitolato “ Werther o le insidie del ‘salto di settima’ ”, nel proseguire la testimonianza sulla relazione costante di studio e perfezionamento vocale tra Lauri-Volpi e Corelli, ecco quanto ci viene raccontato nel dettaglio :
<<Una telefonata urgente da New York a Valencia. E’ Franco Corelli, il quale s’accingeva a interpretare, per la prima volta nella sua carriera, il “Werther”, opera quanto mai impegnativa per qualunque tenore lirico, e oltremodo rischiosa per un tenore di tipo eroico, qual è il cantore anconetano, che mi onora della sua fiducia. Trovava difficoltà nella romanza “Pourquoi me reveiller, o souffle du printemps”, che esige mezze voci nella prima strofa, e slancio angoscioso, che rasenta la disperazione, nella seconda. Momento culminante, in cui “Werther” declama i “versi d’Ossian”, allusivi al suo stato d’animo. I tenori lirici, eludendo l’intenzione dell’autore, eseguono allo stesso modo la prima e la seconda parte del brano, smorzando quell’ “O soffio dell’april” anche nella risoluzione che precede il finale dell’atto in cui “Werther” tenta di trascinare Carlotta all’amplesso fatale. Corelli, che possiede, ora, una voce elastica, capace di filature e di sfumature, non aveva problemi da risolvere nell’eseguire fedelmente la partitura. Ma, ciò che lo rendeva esitante era quel salto di “settima” sulla vocale “e” (reveiller). Per telefono, a cinquemila chilometri di distanza, mi domandava quale fosse l’emissione più sicura di quella vocale, la cui incertezza lo rendeva dubbioso se dovesse, o non, rinunciare alla recita. Tutti i salti di “settima” sono pericolosi per qualunque gola, anche la più dotata e privilegiata. Il segreto per superare l’ostacolo consiste nell’ “appoggiare” sul punto giusto di risonanza la nota inferiore e non sorvolarla per precipitarsi sull’acuta. Assicurata la prima, la seconda segue automaticamente per legatura. Nel telefono, ho fatto sentire a Corelli quell’emissione, dopo averne verbalmente dimostrato il motivo, in base alla teoria e alla pratica sulla quale, negli ultimi sette anni, abbiamo discusso applicandola con risultati positivi e benefici, alla sua voce. Teoria e pratica che Maria Ros m’insegnò, con il suo magistero prezioso, salvando da fine prematura la mia voce. A riprova di tali mirabili e quasi prodigiosi risultati trascrivo una lettera che, in data 7 aprile di quest’anno, m’invia uno sconosciuto: “Io, francese, di Parigi, mi trasferii in Italia, abbandonando tutto: famiglia, amici, lavoro, abitudini, per amore del canto. La vita non è stata facile, alla ricerca di una verità vocale che nessun maestro sembrava conoscere. Perdetti così, in breve tempo, ogni illusione di leggere il suo libro “A viso aperto” e successivamente “Misteri della voce umana”, “Voci parallele”. Questi libri sono stati il mio “Vangelo”. Adesso compio 36 anni e dirigo una scuola di canto dove cerco di mettere in pratica il Suo insegnamento, e posso dirle di avere già conseguito ottimi risultati. E’ una cosa meravigliosa! E questo lo devo a Lei, cher Monsieur Lauri-Volpi, e non posso che gridarle la mia gratitudine: merci, merci. Ora la mia vita ha uno scopo, ed ho coscienza di essere utile. La Sua vita, la Sua carriera sono esempio altissimo per i giovani artisti di oggi, ed io intendo ad essi ricordarlo. Je vous souhaite toutes sortes de bonnes choses. En toute gratitude, votre dovoué Claude Thiolas, viale Monfenera, 25/A, Treviso, 7 aprile 1971.” Davvero consolanti queste testimonianze sull’efficacia di un criterio d’arte che, nato nella mente di una cantatrice geniale, ha salvato numerose voci liriche dalla decadenza e indicato il cammino giusto a cantori e maestri di canto, ignari della “verità vocale” cui accenna il “francese di Parigi”. Ma l’assiduo lettore di questa mia rubrica vorrà conoscere come ebbe a cavarsela l’amico Corelli nel “Werther”. Ecco, telegrafa lui stesso: “Mille auguri di buona Pasqua in ottima salute – seguirà mia lettera – Werther è stato grazie a lui uno splendido successo – io resto ancora commosso per questo miracolo – sono vicino con tutto il cuore – Franco”. Mia moglie, dal Cielo, sarà felice della luminosa affermazione della sua dottrina, realizzata da una superba voce, che, al Metropolitan, continua a difendere la tradizione del primato artistico del vero “bel canto” italiano.>>
(da: "MUSICA E DISCHI", giugno 1971)
cfr. "Tenori a confronto: Lauri-Volpi maestro di Corelli"
KRAUS Alfredo Kraus racconta del suo incontro con Lauri-Volpi e della respirazione intercostale-diaframmatica, dalla Masterclass di Alfredo Kraus al Teatro Brancaccio, il 22 marzo 1990, a Roma:
« Io per esempio ho l'esperienza quando ho debuttato qui a Roma, ho conosciuto Lauri-Volpi, e sono andato a casa sua, tramite un amico (sa, questo amico era uno spagnolo, voleva essere sicuro, che lui non ne capiva molto, e voleva, non so, voleva star tranquillo, che le cose andavano bene) e mi portò da Lauri-Volpi, e Lauri-Volpi stesso mi accompagnò al pianoforte "Questa o quella" e "La donna è mobile" e dice: "Questa è la tecnica giusta, oggi non canta più nessuno in questo modo, però questa è la tecnica che si usava." E, l'unica cosa che mi ha raccomandato è di stare attento al repertorio, m'ha detto: "Per carità, Lei faccia sempre il suo repertorio, perché se Lei rimane in repertorio, con questa tecnica, Lei canterà a lungo." Perciò era uno che sapeva il fatto suo. (...) Io credo che Lauri-Volpi avesse una buona tecnica. (...) E poi lui respirava in un modo perfetto, perché è stato lui a dirmi che la respirazione dovrebbe essere "intercostale-diaframmatica", per una semplice ragione, se io quando respiro apro le costole, la membrana elastica che è il diaframma si distende totalmente, si elasticizza al massimo, e diventa tesa, tesa il più possibile per appoggiare appunto la colonna d'aria, questo è importantissimo. Allora si respira, si aprono bene le costole, tutto attorno, e lì si appoggia la voce »
Testimonianza di Giuseppe Pietrarelli, tenore lirico-leggero che incontrò Lauri-Volpi a Valencia, Burjasot (Spagna) nelle estati del 1974, 1975 e 1976 :
«Nel tempo di vacanze andavo spesso in Spagna con mia moglie e volli conoscere il grande Lauri Volpi personalmente. Ci ricevette gentilissimo e molto felice di incontrare un connazionale e anche con mia moglie, perchè lui amava l’Olanda.
Mi chiese, se ero un tenore e dove e con chi avevo studiato. Poi si sedette al pianoforte e fece due acuti fulgidi, che ancora ricordo bene e mi disse: “Te li regalo, questo è Lauri Volpi!” e poi, “Ora canta tu per me”. Mi fece fare un paio di arpeggi, più o meno fino al do di petto. Poi mi fece cantare “Caro mio ben”, la “Gelida manina” e parte di “Ella mi fu rapita”. Rimase un poco in silenzio e poi disse: "Hai una bella voce di tenore lirico leggero. Però non conosci bene il passaggio e non sai appoggiare bene la voce", e poi chiese se gradissi i suoi consigli. "Torna se puoi e cominceremo a lavorare insieme perchè hai un bel colore di voce e anche una buona estensione, potresti far bene il Barbiere di Siviglia" e vide la mia faccia un poco delusa e disse ancora, "guarda che lo cantavo anche io il Barbiere di Siviglia, perchè ero un tenore lirico leggero nei primi tempi."
La vocale per lui regina era la "A". La voleva leggera e chiara, non gonfia e non oscura, perchè affaticava la voce e avrebbe danneggiato gli acuti. La voleva piccola, non larga, e sulle labbra avanti ai denti. Io non sapevo come fare e non capivo e allora lui mi disse "pronuncia una parola: Parmi". Io lo feci e lui mi chiese "Dove suona questa parolina?" ed io risposi "Sulle labbra" e lui disse "Questa è la posizione sulle labbra per la vocale A". E allora facemmo vocalizzi con la vocale "A". Ma preceduta dalla consonante "P", cioè "Pa" ecc. E la voce veniva bene, non grande e facile. "Col tempo farai anche senza la P, ma semplicemente con la A, perchè avrai capito", ma io sentivo, che proiettavo pure bene verso l’acuto, il suono verso la fronte e nel cranio, cioè gli armonici del petto verso gli armonici del cranio. Per me, tenore lirico leggero, il FA e il SOL, li voleva rotondi, ma il LA bemolle, diciamo coperto sempre. Era secondo lui la saldatura perfetta per la mia voce, non forte, per altri tenori spinti o drammatici la saldatura cominciava dal MI centrale. Per me Lauri-Volpi era un dottore chirurgo della voce lirica, un uomo molto sapiente e capiva subito i pregi e i difetti di un cantante lirico per l’appoggio con l’esercizio con il "Pa". Capivo bene dove appoggiare, mi diceva di appoggiarmi sulla cintura e tutto intorno al corpo, ma senza violenza soffiare leggero, come un alito. Era il suo modo di parlare. Nelle romanze mi faceva esercitare su frasi come "Talor dal mio forziere" oppure su "Parmi veder le lacrime" e per i grandi acuti come "La speranza" della "Gelida manina", voleva un bel respiro profondo, bene appoggiato sulla cintura e poi cantare. Consigli: non esagerare, quando studiavo nel registro acuto, non gonfiare i centri e prima di cantare una romanza, prima di iniziare, formare mentalmente la melodia e poi cantare. Poi i vocalizzi sempre dall'alto al basso, così scendendo, si trovava bene la maschera e l’appoggio diaframmatico toracico e così questa saldatura in tutta la gamma nelle due ottave veniva perfetta e non si sentirebbe questo cambio che molti cantanti fanno sentire.
Da lui venivano tanti artisti, lui diceva "una processione" tra cui Alfredo Kraus, di cui diceva che era bravo e curava il repertorio leggero, che Lauri Volpi gli diceva di non cambiare mai. Veniva il grande Franco Corelli, che Lauri Volpi ci diceva, che Corelli aveva abusato del diaframma e che doveva curare e riposare, ma che sarebbe stato il suo successore e poi veniva anche Luciano Saldari, mio compagno di scuola a Bologna da Melandri ecc, ecc. Di Luciano Pavarotti diceva, che cantava come un angelo, ma non è stato da lui. Ho seguito a lungo i consigli di Lauri Volpi, anche scrivendoci.
Mi ripeteva di studiare il repertorio leggero, come il "Barbiere di Siviglia" e mai debuttare con "Cavalleria rusticana", che mi avrebbe rovinato. Lui diceva, che dava solo consigli, ma poi insegnava con passione ed entusiasmo. Non voleva mai una lira, era un uomo generoso, coltissimo e nobile. Con lui si stava bene, era facile e allegro come un ragazzo. Io per la mia età avanzata, posso ancora cantare con facilità, ringraziando il grande Lauri Volpi e i suoi insegnamenti.»