L'acustica all'aperto all'Arena di Verona, secondo G.Lauri-Volpi ('Rigoletto' e 'Turandot', 1928) e B.Gigli ('Marta' e 'Africana', 1932)
ACUSTICA ALL'APERTO all'Arena di Verona, secondo Lauri-Volpi ('Rigoletto' e 'Turandot', 1928) e Gigli ('Marta' e 'Africana', 1932)!!!
Lettera di Lauri-Volpi, inviata da Venezia - tra una recita e l'altra del 'Rigoletto' e di 'Turandot' - il 20 agosto 1928 alla moglie Maria Ros che si trovava in quel momento a Valencia:
"Appena arrivato a Genova e liberatomi dalle noie della dogana, partii in automobile con Zenatello. Arrivammo a Milano in sei ore penose, per la pessima strada e la polvere asfissiante. L'indomani, all'alba, ripartimmo per Venezia. Tre ore deliziose, queste, per la bellissima strada olmata e il panorama suggestivo. Poche ore di riposo nella villa di Zenatello e la Gay: una corsa in mezzo a un orto ricco di vegetazione. In serata, una prova all'Arena. Ieri sera mi presentai nel 'Rigoletto'. Successo enorme, replica della 'ballata' e della 'canzone'; parossismo del pubblico al 're bemolle' del duetto. La voce mi ha servito pronta e ardita, quasi che non fossi esaurito dal lungo viaggio in mare e in macchina e dal poco dormire. L'Arena è veramente superba, grandiosa, gloriosa. Immagina: ieri sera, gremitissima, era un mare di teste. E quando nell'immensa cavea e per le gradinate, illuminate a giorno, il pubblico in segno di saluto, sventolò in mio onore i fazzoletti e, spente le luci, accese, come qui si costuma, miriadi di candeline, tutto il vasto anfiteatro romano offriva, nella notte stellata, uno spettacolo indimenticabile, unico. Peccato, Maria, che tu non c'eri. Avresti pianto di gioia. La notte scorsa, esaltato dalla recita, e stanchissimo per le tante emozioni, ho dormito appena cinque ore. Questa sera, 'Turandot'. Per la prima volta, in vita mia, ho cantato all'aperto, davanti a tanta folla. In quella vastità temevo che la voce si perdesse. Per contro - mi si dice - ha risuonato, dominatrice, ovunque conquistando spazi e cervelli. La gente sembrava impazzita."
(da: G. Lauri Volpi - "Parlando a Maria" - Trevi Editore, 1972)
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28 luglio 1932 - Verona, in occasione delle recite di "Africana", Beniamino Gigli concede un'intervista al giornale "Arena":
«(...) "Nel mio continuo pellegrinare - pellegrino di canto e di arte, per quanto mi è possibile, italiana - Verona è una delle soste più care e più belle", così ci diceva Beniamino Gigli, rievocando il suo soggiorno ed il suo successo veronese di tre anni fa. "Verona è una città nella quale io respiro l'aria dell'arte (...) Potrei dire che qui è tutto bello; certo che tutto è suggestivo come è suggestiva la storia di questa città illustre che, fra gli altri primati, può vantare quello - e per un artista non è una cosa secondaria - degli spettacoli lirici all'aperto".
- Lei crede, abbiamo chiesto, al successo, o meglio all'avvenire, degli spettacoli lirici all'aperto?
"Certo" - e nel risponderci calorosamente, il suo volto si è illuminato di un sorriso - "certo, e non affermo un paradosso, i veri spettacoli lirici, i più completi si possono avere all'aperto. Ma, c'è un ma, che pregiudica queste rosee speranze; e cioè che pochi sono i teatri all'aperto che si prestano bene. Il migliore, quello che ha diritto ad un avvenire, è il teatro costituito dalla vostra Arena. Lo spettacolo lirico in Arena non perde della sua efficacia musicale e vocale, poiché i mezzi acustici del grande anfiteatro sono meravigliosi, dovrei dire portentosi. Quanti non sono i teatri che vanno per la maggiore, e sono più sordi dell'Arena? Potrò farne un elenco che sarebbe più numeroso delle dita delle mani. E lei", continua il nostro interlocutore, sempre più accentuando la vivacità della sua conversazione, "non ha idea che voglia dire per un artista cantare in un teatro che uccida la voce, che ne smorzi i chiaroscuri e ne uniformi quella gamma di pause che sono necessarie onde creare nel canto quell'atmosfera melodica che è la sua ragione principale di gioia e di entusiasmo per lo spettatore. Questi inconvenienti in Arena non si verificano, poiché essa è, per usare una frase colorita e di moda, una grande conchiglia sonora. (...)".
- Ha provato subito questa sensazione, durante le prime due recite di "Marta"? Beniamino Gigli sorride e tace per qualche breve istante. Il ricordo del primo debutto in Arena, è certo per l'illustre artista molto gradito.
"Ecco: sarò sincero. Accettai di cantare in Arena con qualche esitazione. Temevo che l'anfiteatro non rispondesse a pieno, e che il pubblico gradisse questi spettacoli più per la loro completezza coreografica, che per la loro impronta artistica lirico-musicale. Invece, dopo i primi momenti nei quali non provavo apprensione, ma un senso di disagio, mi accorsi che il pubblico - e che pubblico era: un fiorire infinito di teste, di vesti che io scorgevo indistintamente; e lassù in alto, il bagliore bianco dell'ala dell'Arena, sola, e irta come un fantastico scoglio - dicevo che mi accorsi come il pubblico sin dall'inizio fosse preso dal canto e dalla musica, che risuonavano nel silenzio alto dell'anfiteatro in tutta la loro pienezza". (...)»
Gli Ugonotti all'Arena di Verona - RADIOCORRIERE - 13-20 agosto 1933 (con Lauri-Volpi)
LE GRANDI TRASMISSIONI DELL' "EIAR" - "UGONOTTI" ALL'ARENA DI VERONA -
(...) Ormai, lanciare nell'etere uno spettacolo, anche non appositamente preparato per la radio, è divenuta cosa quotidiana: ma certe commistioni, che, letterariamente, si potrebbero definire, all'antica, contaminazioni, generano tuttavia nuove meraviglie e ammirati consensi. Non si entra in uno dei grandi monumenti del passato senza riceverne nell'anima il prestigio: e in verità sembra che i fantasmi di antichi costumi, di glorie polverizzate, di forze disperse, risalgano dalle ruine, specialmente quando queste rimangano quasi intatte, come avviene per l'Arena di Verona. E già sorprende di poter ricostruire spettacoli odierni, là dove i Romani organizzarono feste grandiose, di ammassare migliaia di spettatori, in abito d'oggi, là dove furono i pèpli, le porpore, le tuniche, le lorìche; di alzar palcoscenici giganti, dove si ergevan le tribune dei Consoli e dei Proconsoli, di affidare gli effetti luminosi ai potenti riflettori elettrici, dove soltanto il Sole li creava, e di far cantare Lauri Volpi, in vesti cinquecentesche, là dove i bestiarii, i reziarii, i gladiatori, davan spettacolo di gagliardia e d'audacia. Ma più ci esalta collocare i microfoni, minimi ordegni novecenteschi, a contatto con le pietre millenarie, che reggimenti di schiavi tagliarono, alzarono, addossarono, per trenta metri d'altezza e 400 metri di perimetro, in tre file di cinte, e son lì, da venti secoli, maestose e taciturne, e videro tanta storia di tempi e di genti, e oggi servon l'acustica per una trasmissione radiofonica... La quale, conviene dirlo, si presentava, tecnicamente, con molte incognite, non tanto per l'incrocio di innesti di linee, dovendo irradiarsi per tutta l'Italia, quanto per le difficoltà di "presa". Il pubblico di un'Arena non è quello di una sala, dove leggi e tradizioni impongono una disciplina di silenzio e di compostezza. Nell'Arena, la stessa enormità di spettatori, calcolati a 18.000, provoca un diffuso e gigantesco mormorio, imponente di altezza e di vastità. Inoltre, linee di fortuna, grovigli di cavi, mucchi di batterie, messi in opera, dove?... In un sotterraneo della galleria interna, in una di quelle volte che fan capo ai 74 vomitorii antichi, oggi chiusi verso la "càvea" ma aperti appunto nei sotterranei: e a contatto con gli altri giganteschi "camerini", dove centinaia di comparse, guerrieri, ballerini, folla d'ambo i sessi, studenti, cittadini, ugonotti e cattolici, tutti egualmente religiosi del fracasso e dello schiamazzo, andavano, venivano, gorgheggiavano, gridavano, allegrissimi ad onta delle discordie intestine che avvenivan frattanto sul palcoscenico. Pure, a prescindere dallo spettacolo visivo, che rappresenta certamente una grande attrattiva, si può affermare che, dal punto di vista lirico, l'Opera di Meyerbeer sia stata gustata meglio per radio che per diretta ascoltazione. Pensiamo, infatti, alle condizioni di vastità dell'ambiente; l'orchestra, pur di grande complesso, sembra affiochirsi in tanto aere, e alle gradinate estreme giunge assai tenue; lo stesso valga per le voci, che, se sprofondate in dentro, han da vincere distanze prodigiose. Sicchè, ci vuole la potenza d'un Lauri Volpi o d'un Pertile, per superarle con vantaggio. Perfino la compattezza dei cori subisce talune diseguaglianze, taluni ritardi fra primi e ultimi piani, comprensibilissimi. Orbene, ai microfoni, posti con scienza oculata, nessun rapporto giunge diminuito o sfocato. Essi raccolgono in piena misura tanto le voci del palcoscenico come quelle orchestrali, evitando in maniera quasi assoluta i movimenti della folla innumerevole. Martire, certo, ed eroe, il direttore tecnico della trasmissione. Conoscetelo, idealmente, o ascoltatori! Vedetelo, all'atto dell'inizio, già in cuffia da un'ora per i definitivi assaggi delle linee, già esausto di preparazione e di organizzazione scientifica, passare in completa tensione, pur calma e serena, all'ascoltazione dell'opera "in partenza", valutando, secondo per secondo, l'entità dei suoni e modulandoli all'uopo: tutto questo, per la durata, non certo breve, dell'opera, continuamente informandosi dell' "arrivo" d'onda alle stazioni, tecnico e musicista insieme, direttore d'orchestra, di cori e di masse, sull'immenso palcoscenico della radio, votato al silenzio e all'ombra. Per la cronaca, una splendida luna. La quale ammirava, ammiratissima, la Parigi del 1572 (...) CASALBA.
"Il più intimo, diretto collaboratore di un Compositore e di un Direttore d'orchestra è l'ESECUTORE VOCALE"!!!
Giacomo Lauri-Volpi - CON TOSCANINI: È per me un insigne onore (...) per un artefice della voce cantata, un collaboratore scenico, un esecutore del melodramma, trovarsi qui, in mezzo a direttori d'orchestra tra i più illustri del nostro tempo, a critici musicali e compositori non meno egregi, per l'invito rivoltomi dal Sovrintendente dr. Remigio Paone, con le parole lusinghiere: "A questo convegno, dal quale la figura del grande Interprete possa risultare precisata il più concretamente possibile, quale protagonista di tutto un capitolo fondamentale nella storia della direzione d'orchestra, saremmo lieti che Ella volesse partecipare recando i ricordi della Sua personale conoscenza del Maestro". Questo straordinario convegno, indetto a soli pochi mesi dal cataclisma che ha minacciato di affogare Firenze; la città Fiore del Mondo (così la chiamano in uno splendido libro Papini, Bargellini, Prezzolini e Soffici) (...) è un segno di quanto possano l'amore dell'Arte e la volontà di vivere e fiorire di tutto un popolo che, come il popolo ellenico, diede lezione imperitura al mondo del pensiero e dell'Arte. (...) Ma non è la prima volta che Firenze si rivolge ad un cantore per ricordare un grande musicista. Si sa che il più intimo, diretto collaboratore di un compositore e di un direttore d'orchestra è l'esecutore vocale. È la voce primaria, che non solo interpreta note, ma incarna un personaggio, la "dramatis persona" pur nella finzione che, tuttavia, dà al pubblico il senso della vita nella figura, nel gesto, nella parola scenica, nel suono cantato. Quando si trasferì dal Cimitero di Père Lachaise alla recentemente inondata Basilica di Santa Croce, la salma di Gioacchino Rossini, il Sindaco di Firenze Marchese Torrigiani e il Presidente dell'Istituto Musicale invitarono a parlare, dopo le Autorità cittadine e nazionali, il tenore Tamberlick, venuto espressamente da Parigi a tributare, anche a nome dei suoi compagni, l'omaggio di tutta una generazione di cantanti gloriosi, alla memoria del Cigno di Pesaro. Le sue parole davanti al feretro, riaperto dopo 18 anni dalla morte di Rossini, suscitarono un senso di stupita commozione, espressa da una voce che, dal Maestro, aveva ricevuto consigli, ispirazione, incitamenti per quella nostalgia di perfezione estetica propria dei grandi spiriti. Anch'io vengo da lontano a recare il mio tributo di ammirazione al sommo Interprete, qualificato, giustamente, "protagonista di tutto un capitolo fondamentale nella storia della direzione d'orchestra". Del resto, la storia della direzione orchestrale vera e propria risale ad un secolo. Mi sia concesso riassumerla succintamente. Un tempo le orchestre si riducevano a una limitata famiglia di strumenti. Il dramma cantato era affidato esclusivamente alle voci primarie per le quali, assai spesso, gli autori componevano le loro opere. La supremazia delle voci muliebri e, più tardi, il predominio di quelle dei sopranisti eunuchi, assorbiva l'interesse degli spettatori a tal punto, che la parte strumentale si limitava al pedissequo accompagnamento del canto scenico. Il direttore batteva il tempo. Spesso doveva soggiacere al capriccio delle auree, quanto arbitrarie, gole per le quali non esisteva né ritmo, né stile. Unica legge, il virtuosismo; unica genialità, l'improvvisazione. Ma Rossini limiterà sghiribizzi e ghirigori degli improvvisatori. Comporrà le cadenze lui stesso, e dirigerà talvolta le sue opere emergendo dalla fossa orchestrale. Col "Guglielmo Tell" darà intenso impulso alla trama strumentale, affidando all'orchestra parte concomitante, se non preminente - come avverrà con l'avvento del dramma musicale wagneriano -, nella elaborazione del melodramma tipicamente italiano. Si manifestò allora la necessità di un animatore, di un condottiero della falange strumentale, composta di elementi a corda, a fiato, a percussione, nonché della massa corale, che incominciò a farsi poderosa e ponderosa. Urge che tutti i fili dello spettacolo siano in mano di un solo: di una specie di Demiurgo. Appaiono i primi grandi direttori d'orchestra nella seconda metà del secolo romantico. Non più semplici battitori di tempo con l'archetto o un fascio di fogli in mano. Il Berlioz ne parla argutamente, dopo aver assistito ad un concerto vocale e strumentale a San Luigi de' Francesi in Roma. Si delineano le prime figure dei cosiddetti "maghi della bacchetta", un tantino egocentrici, che non sempre eseguivano ciò che l'autore ha scritto, sostituendosi, in questa attitudine, alla condotta dei tanto deplorati divi del bel canto. Le rivalità tra i protagonisti scenici e i protagonisti del podio, iniziano quell'incrinatura della compagine vocale e strumentale che, qualche decennio più tardi, porterà alla crisi del teatro lirico. Il quale tuttora, e oggi più che mai, ne subisce - sia detto per inciso - le perniciose conseguenze, dalle quali ha tratto vantaggio enorme una nuova figura di esecutore: il "divo" della regia, la cui categoria è salita al massimo fastigio della gerarchia dello spettacolo operistico. Purtroppo le rivalità tra esecutori travolsero, non di rado, l'autorità dello stesso compositore, cioè del vero creatore dell'opera d'arte. Qualcosa ne seppero lo stesso Verdi, Puccini e Giordano e Mascagni. Così ha finito per prevalere nell'animo del pubblico una nuova forza, una oscura forma di pseudo musica e di pseudo canto a base di ritmi elettronici e di voci epilettoidi. Dicevo che fin dai tempi di Verdi, s'inizia l'avvento della prestigiosa bacchetta. Ma i veri direttori d'orchestra riuscirono a prevalere non per sortilegi e virtù esoteriche, ma per devozione e lealtà verso la musica e il compositore. I Mariani, i Faccio, i Mancinelli, i Ferrari, i Mugnone, i Vitale, i Serafin, i Gui, i Marinuzzi, i De Sabata, onorarono il podio. Eccelse il conterraneo di Verdi: quell'Arturo Toscanini che, per oltre mezzo secolo, sbalordì l'universo della musica (...)
(in: LA LEZIONE DI TOSCANINI - Atti del Convegno di studi toscaniniani, tenutosi dal 6 all'11 giugno 1967 a Firenze, nella Sala dei Dugento di Palazzo Vecchio, nell'ambito del XXX Maggio musicale fiorentino - Firenze, Vallecchi ed. 1970 - ristampa anastatica, Parma, agosto 1985; tra i relatori e partecipanti vi erano personaggi come E. Ansermet, M. Carner, G. Confalonieri, F. d'Amico, T. Dal Monte, M. Favero, E. Gara, G. Gavazzeni, R. Leibowitz, E. Lendvai, R. Pampanini, T. Pasero, G. Pugliese, M. Stabile, A. Votto. La relazione intitolata "CON TOSCANINI" inviata dal grande tenore di Lanuvio, Giacomo Lauri-Volpi (da Burjasot, Valenza - SPAGNA), non fu letta al convegno ed appare pubblicata in Appendice agli Atti del Convegno internazionale: sei storiche giornate, in otto sedute, dedicate ad Arturo Toscanini, a dieci anni dalla scomparsa del celebre Maestro parmigiano)
- Il rapporto artistico tra Giacomo Puccini e il suo tenore prediletto: Giacomo Lauri-Volpi (da "Gianni Schicchi" a "Turandot") -
LAURI-VOLPI: Venne la volta del "Gianni Schicchi". La parte di Rinuccio mi calzava a meraviglia e m'era simpatica per il ricordo dell'audizione [con Emma Carelli], in cui cantai, per primo brano, l'inno: "Firenze è come un albero fiorito". Puccini, presente a tutte le prove di pianoforte, non era soddisfatto. Come al solito, la voce si contraeva per l'emozione in sala e perdeva l'ardore e il palpito della sensibilità, che le derivava dalla presenza del pubblico e dall'armoniosità dell'orchestra, a differenza di altre voci che il panico annichilisce sulla ribalta. Mocchi intervenne a tempo: "Maestro, non sa lei che questo giovanotto ha rivoluzionato Roma in quindici recite di 'Manon'? Mi saprà dire quel che penserà quando l'avrà visto e udito in scena". Il grande e buon Puccini non insistette e attese il successo dell'opera; successo che non tardò a venire tal quale l'aveva pronosticato Mocchi. Puccini divenne mio ammiratore e due anni più tardi scrisse questa lettera a Raul Gunsbourg, direttore del Teatro di Montecarlo:
Milano, Via Verdi, 4 (13-1-1922) "Carissimo Raul, grazie della tua lettera. Ho domandato a Lauri Volpi se canterebbe la mia povera Rondinella, 'La Rondine', ch'io voglio risuscitare, e mi ha detto di 'sì'. Gli ho fatto avere la musica della 3a Edizione che è come la prima, ma con piccoli miglioramenti. Per la Lisette, la Signora Ader non potrà farla. Sicchè pensa tu a questa parte. Domenica andrà 'Trittico' alla Scala. Spero molto bene. Ti ringrazio di cuore se rimetterai in scena la mia povera Rondinella - credimo tuo G. Puccini"
A maggio, dopo aver cantato anche al Politeama Fiorentino "Gianni Schicchi", m'imbarcai a Genova per Rio e Buenos Aires con tutta la Compagnia del Costanzi, compresi coro, orchestra e scenari. (...)
L'EQUIVOCO - "Rigoletto" alla Scala con Toscanini Per quindici giorni prove, controprove e antiprove, prove in costume e prova generale ci meccanizzarono, mummificarono, fossilizzarono. Si giunse alla recita (14 gennaio 1922) presi da una forza d'inerzia subcosciente. (...) Il giorno della quinta recita mi ammalai di faringite, che si manifestò con un repentino abbassamento di voce nelle ore pomeridiane. Avvertii sull'imbrunire il Direttore Generale, l'ex baritono Scandiani, il quale, accompagnato da Lusardi, venne al mio capezzale non per esprimere sentimenti amichevoli, ma per redarguire aspramente: "Con quale criterio lei ha osato prevenire all'ultimo momento, a poche ore dallo spettacolo, l'Impresa di un gran teatro, che avrebbe potuto in tempo utile provvedere per sostituirla con uno dei tanti cantanti della sua categoria che sono a disposizione? Come si rimedia ad ora così tarda? Questo è un tranello, un trucco, una rappresaglia. Per la soppressione di una cadenza Lei ha voluto mettere in angustia l'Impresa con premeditata perfidia". Mortificato dal male, irritato dalla ingiustizia dei sospetti, umiliato nella mia dignità di gentiluomo, non potei tollerare oltre tanta violenza e scattai: "Esca immediatamente e non mi costringa a mancarle di riguardo. Se ne vada; altrimenti le scaravento addosso ogni cosa".
Il poveretto, che in fin dei conti compiangevo io stesso per il danno involontariamente da me arrecatogli, non si fece ripetere due volte l'energico invito e partì furioso, minacciando vertenze, processi e fulmini. Toscanini scagliò l'anatema: "Quel ragazzo non canterà mai più sotto la mia direzione". Scandiani a sua volta, giurò: "Quel tenore non metterà più piede alla Scala finchè io ne sarò Direttore Generale". Io rimasi in un fondo di letto per quindici giorni con alta febbre. Quando, levatomi, esplorai la zona minata della Galleria, dovetti cautamente arrestarmi alla periferia dove arrivava l'eco delle detonazioni della maldicenza. Il giudice più benevolo stimava che il mio avvenire lirico era compromesso irrimediabilmente. Per molti anni, infatti, rimasi all'indice e fui classificato fra gli scomunicati reietti della Scala. Si attribuì la interruzione delle recite non al male, ma ad un diverbio che avrei avuto con Toscanini e all'ipotetica mia protesta per l'esclusione della cadenza. Le invenzioni della fantasia collettiva fecero il resto e degenerarono in pettegolezzi degni di isterismi ancillari. Così, una banalissima infreddatura mi creò una atmosfera irrespirabile per circa otto anni nell'Italia Settentrionale e molta gente, coll'andar del tempo, credette e fece credere alla menzogna (su cui gli astuti abilmente specularono giuocando sull'equivoco) di una protesta in piena regola inviatami da Toscanini per motivi artistici, come se alla quinta recita di un'opera alla Scala sia ammissibile un provvedimento siffatto. Non sempre le rivalità adoperano le armi legittime del valore. La calunnia e l'ipocrisia congiurarono attivamente contro l'oggetto della loro persecuzione, soprattutto quando esso occultasi indifeso nella solitudine dell'orgoglio e dell'austerità. Con Maria partii, profondamente amareggiato, per Genova, dove il transatlantico "Conte Rosso" ci attendeva per il viaggio a New York. (...)
A Buenos-Aires, nella medesima stagione, creai la parte del "Principe Ignoto" nella "Turandot", protagonista Claudia Muzio (26 giugno 1926). La direzione del Teatro della Scala aveva vietato a due artisti italianissimi l'orgoglio di eseguire la primissima edizione dell'opera postuma di Giacomo Puccini su scene italiane. Essi furono compensati dall'onore di portarla sulle scene bonearensi e di farne un'interpretazione rimasta indelebile nell'anima degli Argentini e nella storia di quel Teatro. (...) Colla Jeritza creai la "Turandot" anche al Metropolitan. La soprano viennese sbalordì per maturità di preparazione, atteggiamenti imperiosi e felini, impeto drammatico. Non ho mai vista "Turandot" più crudele e adorabile di Maria Jeritza. Toscanini dirigeva in quel momento l'orchestra sinfonica al 'Carnegie Hall'. Una sera cantavo la "Gioconda". La suggestiva romanza, sospirata sulla prua della nave nella notte incantata della laguna veneziana, suscitò emozioni di godimento, oblii di passione e tenerezza infinita in ogni ascoltatore. Toscanini era presente. Il giorno dopo, compiuta l'incisione sui dischi Victor dei preludi del primo e dell'ultimo atto della "Traviata", Toscanini si fece accompagnare al mio albergo dal Segretario Bruno Zirato, il quale così narra l'eccezionale visita: "Siamo venuti a trovarla all'hotel Ansonia. Lei viveva solo, col suo valletto, perché la gentile signora Maria era rimasta convalescente in Spagna. 'Totonno', il suo famosissimo e strano tipo di cameriere, le annunziò la nostra visita con l'originalissima frase: 'c'è chillu luongo, luongo, con nu vecchiu e 'na vecchia'. Lei, venuto fuori dalla sua camera da letto nel salotto, rimase trasecolato di trovarsi alla presenza di Arturo Toscanini e della Signora Carla, consorte del maestro. Il quale di primo acchito le rivolse l'ivito a collaborare con la Scala per il giro a Berlino e a Vienna, sotto la sua direzione. Ella accettò entusiasticamente commosso e il Maestro le espresse gratitudine e compiacimento. Forse Lei non saprà che la sera prima, cantando Lei 'Gioconda' al Metropolitan, il Maestro acquistò per suo conto un modestissimo biglietto di Galleria e di lassù ammirò immensamente la sua eccezionale interpretazione di Enzo e il suo canto magnifico." Bruno Zirato 320 West - 72 Street - New York - City
Nulla debbo aggiungere alla cronaca, che l'amico Zirato si compiacque evocarmi in occasione di una smentita, che i malevoli vollero fare circa l'invito direttamente personale rivoltomi da Toscanini e da speculatori partigiani messo in dubbio. Sì, proprio Toscanini venne in carne ed ossa nel mio appartamento all'Ansonia Hotel. Il gesto gli fa grande onore. Egli dimenticò minacce e anatemi, lanciati contro il giovane Duca di Mantova sette anni prima e lo invitò, maturo, a cantare con lui al Teatro di Stato e di Charlottenburg a Berlino. L'infamato Lauri-Volpi fu il Duca di Mantova e il "Trovatore" del grande giro scaligero. Dio volle che trionfasse su tutta la linea e sgominasse i suoi nemici. Toscanini, grandissimo direttore e sensibilissimo musicista, compresse l'amor proprio e l'egoismo, e per amore alla sua musica, alla sua arte, al suo Verdi e alla sua Scala, capì la necessità di ricondurre all'ovile la pecorella esclusa. Il grande maestro parmense diede prova di saper fare ammenda, trionfando di se stesso. In ciò sta la sua gloria migliore.
(da: GIACOMO LAURI-VOLPI - "L'equivoco", 1938)
N. B. - Come riportato in: Mary Jane Phillips-Matz - "Rosa Ponselle American Diva" - NUP, Boston 1997, pages 221-222, ecco il commento di Tullio Serafin in merito alla performance di Lauri-Volpi nella 'prima rappresentazione americana' di Turandot (16 novembre 1926) con la Jeritza: "I have to add that Giacomo Lauri Volpi was a marvelous Calaf, who, from that night on, made that role his own in all the great theaters in the world".!
E della performance di Lauri-Volpi nel ruolo di Calaf al Met si scriveva sui giornali: "If we had not known him by his princely garb of purple velvet and jade green and the comely figure that he made, we should have known him by the pealing of his trumpet-voice - as Eve, so she told Adam, recognized the tiger by his stripes. Mr. Lauri-Volpi has not forgotten how to fling a high B flat into an enraptured auditorium." - Lawrence Gilman, "The Herald Tribune", November 1, 1927.
'Musica d'oggi', agosto 1928
Serata di gala alla Scala con la ripresa di TURANDOT, con Cigna e Lauri-Volpi (Il Popolo d'Italia, 13 aprile 1935)
'Musica d'oggi', maggio 1935
Martedì 7 ottobre 1941 - VARIAZIONI SCALIGERE - Ritorno di Lauri Volpi - Dal "Sogno" di Manon all'"Esultate" di Otello
(...) Il ritorno alla "Scala" di Giacomo Lauri Volpi, dopo tanti anni di assenza variamente interpretata, merita qualche spiegazione. Nell'attesa mi s'affollano i lontani ricordi: fu proprio in quella sala, testimoni i ritratti di Verdi e di Boito dominanti dalle pareti, che scoppiò il grosso urto con Arturo Toscanini, per la famosa cadenza del Rigoletto. L'opera verdiana aveva trionfalmente rivelato ai milanesi il giovanissimo tenore in una precedente stagione al Dal Verme. Ora il maestro l'aspettava al varco di una personale audizione a tu per tu. Tragica atmosfera di burrasca, nel chiuso e cupo silenzio toscaniniano e nell'ostile accoglienza al tenore sgomento. Finalmente il temibile giudice siede al piano, apre lo spartito, fa cenno d'attaccare. Alla fine della ballata, la cadenza lo esaspera. Batte con forza il pugno sulla pagina. Non parla. Il silenzio si prolunga per qualche minuto. L'ira repressa del maestro si sfoga nel caratteristico torturarsi dei baffi. Ma Lauri Volpi prova l'impressione d'essere lui al posto di quei baffi, sotto quelle unghie che lo fanno rabbrividire. Poi la prova riprende e continua. Ecco il momento della "Donna è mobile"... Lauri la chiude con la filatura che Angelo Masini s'era creata per l'effetto irresistibile, e che, dopo di lui, tutti i tenori avevano, più o meno bene, imitato. La filatura, questa volta, è perfetta. Ma su tanta perfezione scoppia come una bomba l'esplosione di Toscanini: — Ah! No! questo poi no, non lo permetto!... Questa è un'indegnità, un idiota esibizionismo di cantanti buffoni... Tu devi cantare quel che Verdi ha scritto, m'intendi? Alla Scala non si fanno pagliacciate... Lascia pur le varianti agli imbecilli... La sfuriata continua. Lauri incassa e ubbidisce. Dopo le prime recite s'ammala. Una rappresentazione di Rigoletto a teatro esaurito è per forza sospesa. Si attribuisce la malattia, che è vera, a una postuma vendetta del tenore. Invenzioni, deplorazioni, commenti, dilagano in Galleria e fuori. Più tardi egli ne paga il fio. Desiderato e sognato da Puccini vivente come creatore del Principe Calaf di Turandot, nella prima indimenticabile edizione scaligera, viene sostituito dallo spagnolo Fleta. La filatura del Rigoletto si era prolungata oltre il credibile: fino al 1926. (...)
A ventun anni di distanza il tenorino lirico ha compiuto la gamma della sua evoluzione. Dal lontano Sogno di Des Grieux ora erompe il drammatico "Esultate" dell' Otello, che è un simbolico grido di vittoria.
Giuseppe Adami [N.B.: il librettista, assieme a Renato Simoni, della 'Turandot' pucciniana]
(STAMPA SERA - Anno XIX)
In Carmen, all’Arena di Verona, nel 1961 Gabriella Panizza intervistando il giovane tenore Franco Corelli gli chiese: “Durante un’intervista, Lauri Volpi mi ha detto che vai spesso da lui per motivi di studio. Cosa ti colpisce di più in questo grande tenore?”
Questa fu la risposta di Corelli: “Purtroppo mi è stato possibile ascoltare Lauri Volpi [in teatro] solo poche volte. Me ne ricordo una con particolare emozione. Nel ’58, mentre stavo studiando “Turandot”, una sera mi recai a Caracalla per assistere a una recita dell’opera pucciniana interpretata da lui. Ho avuto un vero choc: la parte di Calaf fatta di squilli, di incisività, di canto eroico e di “bel canto” insieme, emergeva completa in tutto il suo fascino; e la prova di Lauri Volpi mi pareva insuperabile. “Turandot” era un’opera scritta per lui e forse per nessun altro. Per un anno chiusi lo spartito, convinto che non avrei mai potuto reggere al suo confronto. Un anno più tardi, spinto dalle continue pressioni degli impresari, accettai di portare in scena quest’opera. Ma l’interpretazione di Lauri Volpi mi è sempre rimasta davanti agli occhi”.
Martedì 7 ottobre 1941 - VARIAZIONI SCALIGERE - Ritorno di Lauri Volpi - Dal "Sogno" di Manon all'"Esultate" di Otello
MILANO, ottobre. Chiedo di Mataloni: non c'è, è in Germania. Non posso dunque avere qualche indiscrezione sul prossimo cartellone della "Scala" nel secondo anno di guerra. Tornerò un'altra volta. Ma mentre esco uno squillo di voce m'investe all'improvviso, da un salone di prova. E' una voce singolare, anzi la più singolare delle voci: schietta, limpida, fresca, piena d'impeto e calore, robusta, travolgente. Voce di grande artista. Mi fermo. Ascolto: Verdi, Otello. Un lampo mi illumina. Interrogo un maestro che passa in quel momento: — Ma non è Lauri Volpi? — Proprio lui.
Ritornano i lontani ricordi
Non m'ero ingannato. Aspetto che finisca. Il ritorno alla "Scala" di Giacomo Lauri Volpi, dopo tanti anni di assenza variamente interpretata, merita qualche spiegazione. Nell'attesa mi s'affollano i lontani ricordi: fu proprio in quella sala, testimoni i ritratti di Verdi e di Boito dominanti dalle pareti, che scoppiò il grosso urto con Arturo Toscanini, per la famosa cadenza del Rigoletto. L'opera verdiana aveva trionfalmente rivelato ai milanesi il giovanissimo tenore in una precedente stagione al Dal Verme. Ora il maestro l'aspettava al varco di una personale audizione a tu per tu. Tragica atmosfera di burrasca, nel chiuso e cupo silenzio toscaniniano e nell'ostile accoglienza al tenore sgomento. Finalmente il temibile giudice siede al piano, apre lo spartito, fa cenno d'attaccare. Alla fine della ballata, la cadenza lo esaspera. Batte con forza il pugno sulla pagina. Non parla. Il silenzio si prolunga per qualche minuto. L'ira repressa del maestro si sfoga nel caratteristico torturarsi dei baffi. Ma Lauri Volpi prova l'impressione d'essere lui al posto di quei baffi, sotto quelle unghie che lo fanno rabbrividire. Poi la prova riprende e continua. Ecco il momento della "Donna è mobile"... Lauri la chiude con la filatura che Angelo Masini s'era creata per l'effetto irresistibile, e che, dopo di lui, tutti i tenori avevano, più o meno bene, imitato. La filatura, questa volta, è perfetta. Ma su tanta perfezione scoppia come una bomba l'esplosione di Toscanini: — Ah! No! questo poi no, non lo permetto!... Questa è un'indegnità, un idiota esibizionismo di cantanti buffoni... Tu devi cantare quel che Verdi ha scritto, m'intendi? Alla Scala non si fanno pagliacciate... Lascia pur le varianti agli imbecilli... La sfuriata continua. Lauri incassa e ubbidisce. Dopo le prime recite s'ammala. Una rappresentazione di Rigoletto a teatro esaurito è per forza sospesa. Si attribuisce la malattia, che è vera, a una postuma vendetta del tenore. Invenzioni, deplorazioni, commenti, dilagano in Galleria e fuori. Più tardi egli ne paga il fio. Desiderato e sognato da Puccini vivente come creatore del Principe Calaf di Turandot, nella prima indimenticabile edizione scaligera, viene sostituito dallo spagnolo Fleta. La filatura del Rigoletto si era prolungata oltre il credibile: fino al 1926.
Un'intensa nostalgia
Ora s'apre la porta della famosa sala e sorridente, ìlare, soddisfatto appare Lauri Volpi. Scendiamo insieme. Mi parla dell'Otello, seconda delle opere che nella prossima stagione canterà alla Scala. La prima è Turandot. Terza sarà I Pagliacci per la celebrazione cinquantenaria di Ruggero Leoncavallo. Ma tutta la grande attesa sfocierà nell'Otello. Mi dice che del Moro di Venezia ha una concezione tutta sua, fatta studiando Shakespeare. Non il solito epilettico ossessionato da una brutale e primitiva gelosia. Otello è un morbido innamorato che si inginocchia in umiltà estatica ai piedi di Desdemona, mentre la Repubblica Veneta si prostra a lui, condottiero vittorioso, che ha schiacciato l'orgoglio mussulmano. Il fondo della sua torturante gelosia è mistico. Vuole salvare l'anima di Desdemona, soffocando in lei quella che crede la colpa terrena, per la salvezza eterna. Sono mesi e mesi che scava e approfondisce il personaggio, psicologicamente e musicalmente.
— Quando — dice — mi sono sentito pronto e sicuro, ho scritto offrendomi alla Scala di cui avevo intensa nostalgia. Ricantare in Italia, nel grande teatro, in una parte che mi rivelasse sotto un completo aspetto di tenore e di interprete, mi pareva un dovere, oltre che un orgoglio, nel momento attuale. Me n'ero andato quando si sferrarono intorno a me, da ogni parte, le più stolide e assurde accuse. Mi si tacciò di iperboliche esigenze di paga, mi si dipinse come un megalomane gigione avideo soltanto di colpi di grancassa pubblicitaria. Mi si tacciò persino di anti-italianismo, io che ho combattuto in pieno tutta la prima guerra, guadagnandomi encomi solenni e il grado di capitano. Tutto questo perchè? Perchè un giorno avevo osato protestare contro la designazione di categoria sindacale dei cantanti, parificati ai datori di lavoro. Perchè esigevo che la mia paga fosse uguale alle massime concesse ad altri due celebri colleghi. Ma soprattutto perchè quando si vogliono inventare leggende intorno al nome di un artista che tale nome s'è creato a prezzo di fatiche, di stenti, umiliazioni, c'è subito un terreno fertile e propizio a raccogliere la semina della malvagità. Le lunghe stagioni all'estero, al Metropolitan, al Colon, in Germania e ultimamente per due anni in Spagna, hanno fatto passare tanta acqua sotto i ponti che anche gli ultimi limacciosi fondi di quella gazzarra sono stati portati via, insieme alla classifica di "datori di lavoro" che ci parificava all'operaio. Oggi siamo anche noi, com'era giusto, tra i professionisti e artisti... Ma non è ciò che nell'ora saldamente, eroicamente, vittoriosamente combattiva della Patria, va considerato. E' invece da considerare che un 'romano de Roma' come me ha il dovere di offrire all'Italia la sua parte migliore: la sua voce, la sua anima, la sua intensa passione, la sua fede. Perciò quest'anno ho voluto, anzi ho insistito, perchè mi si riaprissero le porte della Scala. — E adesso resti qui fino al debutto? — No. Prima del gran pubblico milanese ce n'è un altro che m'aspetta. — Quale? — Quello di Bologna, dove devo sciogliere un voto. — Un voto? — O per meglio dire mantenere una promessa fatta da tempo ai Padri Olivetani di San Michele in Bosco, allo stesso Arcivescovo e al compianto professore Putti dell'Istituto Rizzoli. Ho promesso che avrei cantato, al mio ritorno in Italia, per la ricostruzione delle campane del pittoresco Santuario che domina la Città di Enzo e la ridente plaga emiliana. La mia voce quindi darà voce alle nuove campane, dato che le antiche, con la consueta sbadataggine, se le era messe in tasca il Gran Napoleone... E pensa che tant'anni fa, quando a Bologna, subito dopo Milano, cantai il Rigoletto con tutte le sue brave cadenze e filature, fu proprio scendendo da una passeggiata sulla collina di San Michele in Bosco che, rientrato in albergo, ebbi la magnifica sorpresa di trovare i miei bauli scassinati e svuotati. — Da un ladro? — Press'a poco. Da un impresario di Buenos Aires col quale m'ero reso contrattualmente inadempiente per non rinunciare al Dal Verme che mi offriva l'attesissima possibilità di farmi sentire sul più grande mercato lirico del mondo. Una penale di centomila lire che l'aguzzino cominciò a rimborsarsi con quel sequestro bolognese, dandomi poi la più ostinata caccia in ogni piazza, fino a che non si venne a un pacifico accordo sulle basi d'una nuova scrittura. Immagini la mia desolazione quando constatai che m'avevano portato via tutto quello che allora, dopo tanta miseria, possedevo?
Al "Costanzi" del 1920
L'interrogazione mi rimbalza lontano col pensiero: rivedo Lauri Volpi con in testa, di traverso, un curiosissimo cappelluccio a scacchi che portava alle prove quando giocò la sua prima partita col pubblico del Costanzi nel gennaio del 1920. Emma Carelli, che col marito Walter Mocchi dirigeva il teatro, aveva molta fede in quel ragazzo che usciva dalla scuola del Cotogni di Santa Cecilia. Ma quel ragazzo, acerbo debuttante, preoccupava non poco Rosina Storchio, sulla cui celebrità si fondava l'enorme attesa romana per la Manon di Massenet. Temeva giustamente che quel Des Grieux impacciato e scolastico distruggesse l'importanza dello spettacolo. C'era un'aggravante, per giunta: nella stessa stagione un altro esordiente aveva rovinato l'Iris, sollevando le proteste degli abbonati. Lauri sentiva l'aria gravida di diffidenza e ne tremava. Quando venne il giorno della prima prova con la Storchio, costei non nascose la sua freddezza. Ma a prova finita volle che il tenorino l'accompagnasse all'albergo dove lei stessa gli accennò il sogno del secondo atto con tutte le inflessioni di voce e l'espressione interpretativa che il brano esigeva.
— E' vero — mi conferma Lauri Volpi. — Perfettamente esatto. Ma il mio canto istintivo si ribellava ad ogni ammonimento e ad ogni freno. La Carelli, impressionata, aveva finito col dividere le perplessità della Storchio. Fu allora, dopo la prova generale, che intervenne con impetuosa foga Walter Mocchi: — Cara Rosina — proruppe. — E' inutile ribellarsi. Questo ragazzo deve debuttare. Se vuoi, domani sera, essergli madrina, nel battesimo, bene. Se no un'altra Manon meno diffidente aprirà le braccia alla sua disperata passione.
Un simbolo di vittoria
La Storchio ascoltò quello sfogo imperturbabile. Con fermezza rispose: — Caro Walter, se tu che sei l'impresario e di pubblici te ne intendi hai la convinzione che questo ragazzo vada bene, tanto meglio per tutti. Io sarò felice di incoraggiarlo e di assisterlo scena per scena, in ogni punto, in ogni movimento.
— Ritornai al mio povero albergo, stanco, sfinito, e m'addormentai. Il sogno mio si sovrappose al Sogno di Manon. E sognai quello che era veramente accaduto durante la guerra: una notte ci eravamo rifugiati in una casa diroccata di Lucinico, dove avevamo trovato uno sconquassato pianoforte. Su quel piano m'ero accompagnato a fior di labbro, perchè i morti ed i vivi non udissero, il sogno deplorato. Mi sveglai di soprassalto. Mi dissi: questa sera lo canterò come in quella desolata notte, non con la gola, ma con l'anima. E così fu. Seduto, immobile, ad occhi chiusi, il viso sorridente, mormoravo le parole sul tenue soffio del respiro. E quando arrivai, piegandomi in ginocchio, ai piedi di Manon, al finale, era tale la profondità e la verità della mia commozione che il pubblico balzò in piedi acclamandomi. La battaglia era vinta.
* *
A ventun anni di distanza il tenorino lirico ha compiuto la gamma della sua evoluzione. Dal lontano Sogno di Des Grieux ora erompe il drammatico "Esultate" dell' Otello, che è un simbolico grido di vittoria.
Giuseppe Adami [N.B.: il librettista, assieme a Renato Simoni, della 'Turandot' pucciniana]
(STAMPA SERA - Anno XIX)
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Il tenore Giacomo Lauri-Volpi ricorda la predilezione di Giacomo Puccini per la sua voce
Testimonianza-audio tratta dall'Intervista a Giacomo Lauri-Volpi realizzata a Burjasot il 25 aprile 1971 con Sergio Saraceni.
(Nell'immagine presente nel video: Giacomo Lauri-Volpi (Calaf) e Claudia Muzio (Turandot) nella "TURANDOT" di Puccini, in prima esecuzione per Buenos Aires - Teatro Colón, 25.6.1926)
Nella sua carriera durata ben 40 anni, Lauri-Volpi interpretò più volte i seguenti sette ruoli operistici pucciniani: "Gianni Schicchi", "La Bohème", "Tosca", "Madama Butterfly", "Manon Lescaut", "La Fanciulla del West" e "Turandot".
Per quanto riguarda l'ultima opera incompiuta di Puccini, ecco la lista delle ventisei produzioni di TURANDOT in cui il grande tenore di Lanuvio ha interpretato dal 1926 al 1958 il ruolo di Calaf, nei maggiori teatri del mondo:
1926 BUENOS AIRES, t. Colon 1926 RIO DE JANEIRO, t. Lyrico 1926 NEW YORK, t. Metropolitan 1926 PHILADELPHIA, Academy of Music 1927 NEW YORK, t. Metropolitan 1928 BROOKLYN, Auditorium 1928 VERONA, arena 1928 NEW YORK, t. Metropolitan 1929 PHILADELPHIA, Academy of Music 1930 NEW YORK, t. Metropolitan 1935 ROMA, t. Reale dell'Opera 1935 MILANO, t. alla Scala 1938 ROMA, t. Reale dell'Opera 1938 CREMONA, piazza del Comune 1939 BUENOS AIRES, t. Colon 1942 MILANO, t. alla Scala 1942 BARCELLONA, t. Liceu 1943 ROMA, t. Reale dell'Opera 1944 BARCELLONA, t. Liceu 1947 ROMA, t. dell'Opera 1950 ROMA, t. dell'Opera 1951 FIRENZE, t. Comunale 1954 ROMA, Terme di Caracalla 1955 BARI, t. Petruzzelli 1956 ROMA, Terme di Caracalla 1958 ROMA, Terme di Caracalla
Lauri-Volpi (Calaf) e Claudia Muzio (Turandot) nella "TURANDOT" di Puccini, in prima esecuzione per Buenos Aires - Teatro Colón, 25.6.1926
Giacomo Lauri-Volpi e Maria Jeritza in 'Turandot' al Met nel 1926
IL MERAVIGLIOSO CALAF DI LAURI-VOLPI, nella testimonianza di Tullio Serafin:
One highly publicized event at the Metropolitan followed in November: the American premiere of "Turandot" with Jeritza as the protagonist and Lauri-Volpi as Calaf. Left unfinished when Puccini died in 1924, the work had been completed by Franco Alfano and given its world premiere, directed by Toscanini, at La Scala in April 1926 with Raisa and Fleta. At the Metropolitan it, like "Vestale", was conducted by Serafin, who recalled the problems he had with Jeritza while it was in rehearsal. He described his "memorable arguments" with her:
«She had a beautiful figure for the Princess Turandot, a face that was hieratic and sensual at the same time; but her voice, even though it was pure and rich, was a little short [on top]. The piano rehearsals all ended up in confrontations between her and me [because] she expected me to change or transpose down Turandot's music, something I would not allow. At a certain point I shouted at her.... That infernal creature, who spoke Italian very badly, said with a little smile, "Serafin is gentlemen and lets ladies get away with their little whims." And I: "Ladies, yes. But prima donnas, no!" And I added, "You're nothing but a bluff: you claim that the role of Turandot is written perfectly for you. Raisa claims that, too. But Raisa can sing it as it is written, and you can't."
She shut up and blushed, as if I had slapped her. But she worked hard, got the top notes, and sang the role exactly as it is written, note for note. Just one more thing about "Turandot": I have to add that Giacomo Lauri Volpi was a marvelous Calaf, who, from that night on, made that role his own in all the great theaters in the world.»
(in: Mary Jane Phillips-Matz - "Rosa Ponselle American Diva" - NUP, Boston 1997, pages 221-222)
Lauri-Volpi e Gina Cigna in "Turandot" alla Scala
Diario di Lauri Volpi, 29 gennaio 1943 :
In
"Turandot", la Cigna, riapparsa dopo un'eclisse passeggera, ha
sbalordito i frequentatori del Reale di Roma. L'incantevole sembianza e
l'abbigliamento superbo han fatto di lei una principessa cinese il cui
ricordo resterà negli annali, quantunque la statura non sia propri di
una "figlia del cielo". Fa piacere a un artista, innamorato dell'arte,
registrare il trionfo di una compagna, che aduna in sé virtù musicali e
vocali fuori dall'ordinario.
Scosso
dai suoni e dalla vista della mia compagna, ho moltiplicato l'impeto
della mia voce per attingere le altezze ispirate all'incantesimo di
luci, di colori e di forme vibranti sulla scena.
Serafin,
preso dalla suggestione generale, si è divincolato sotto la bacchetta,
dimenando la sua umanità minuta. L'ho visto compresso sotto la mole
torrenziale dei suoni, straripanti dal golfo orchestrale e dalla ribalta
incandescente.
(in: G. Lauri Volpi - "A viso aperto", 1953)
Giacomo Puccini - "Non piangere, Liù" (Turandot) - Tenore Giacomo Lauri-Volpi - EIAR, 11 novembre 1941- Live
Lauri-Volpi con Germana Di Giulio in "Turandot" a Roma nel 1950
- Germana di Giulio, soprano: "With Lauri-Volpi, who was to become my frequent partner at the Liceo in Barcelona and the Zarzuela in Madrid, where I returned for many seasons, again it was a totally different form of art. I have never known anyone who worked so seriously and with such love on his vocal production, even in the later years, when he became a sort of myth; and the continual new effects he was able to produce were riveting. Being so deeply interested in vocal production myself, I formed a very close relationship with him. With the retirement of Cigna and Pacetti, I was called upon to sing Turandot everywhere, and I had Lauri-Volpi as a partner in this work very often. His Calaf was no longer a voice but a trumpet because of the formidable vibrations he was able to produce, and yet when she sang Verdi he used a completely different approach. I have read all his books on singing. (...) His 'Voci parallele' is undoubtedly the best." (from a 1979 interview, taken in Milan)
[quoted in: Lanfranco Rasponi - "THE LAST PRIMA DONNAS" - London, Gollancz 1984]
Il tenore Giacomo Lauri-Volpi nel ruolo di Calaf, nella "Turandot" di
Giacomo Puccini rappresentata a Caracalla nell'estate del 1958
In Carmen, all’Arena di Verona, nel 1961 Gabriella Panizza intervistando il giovane tenore Franco Corelli gli chiese: “Durante un’intervista, Lauri Volpi mi ha detto che vai spesso da lui per motivi di studio. Cosa ti colpisce di più in questo grande tenore?”
Questa fu la risposta di Corelli:
“Purtroppo
mi è stato possibile ascoltare Lauri Volpi [in teatro] solo poche
volte. Me ne ricordo una con particolare emozione. Nel ’58, mentre stavo
studiando “Turandot”, una sera mi recai a Caracalla per assistere a una recita dell’opera pucciniana interpretata da lui. Ho avuto un vero choc: la
parte di Calaf fatta di squilli, di incisività, di canto eroico e di
“bel canto” insieme, emergeva completa in tutto il suo fascino; e la
prova di Lauri Volpi mi pareva insuperabile. “Turandot” era un’opera scritta per lui e forse per nessun altro.
Per un anno chiusi lo spartito, convinto che non avrei mai potuto
reggere al suo confronto. Un anno più tardi, spinto dalle continue
pressioni degli impresari, accettai di portare in scena quest’opera. Ma
l’interpretazione di Lauri Volpi mi è sempre rimasta davanti agli occhi”.
Lauri-Volpi sul funzionamento pratico della respirazione diaframmatico-costale nel canto lirico
Uno dei fondamenti base del canto lirico è la respirazione: forse nessuno, in un intero secolo, l'ha descritta così chiaramente come ha fatto il tenore di Lanuvio (Roma), allievo del celebre baritono del secondo '800 Antonio Cotogni, uno dei cantanti maggiormente apprezzato da Rossini e Verdi.
Vediamo come descrive il suo modo pratico di respirare, appoggiare-sostenere, metodo assolutamente italiano ed impiegato da moltissimi grandi cantanti del Novecento.
LAURI-VOLPI SUL FUNZIONAMENTO PRATICO DELLA RESPIRAZIONE DIAFRAMMATICO-COSTALE
Il corpo vitale della voce è l'aria. Senz'aria non si respira; senza respiro non si canta. E non si vive. (...) Saper respirare è saper cantare.
Va notato che vari trattati di fonetica e di pedagogia vocale non s'accordano "sul metodo di respirazione". (...) Tutti si diffondono sui particolari fisici e fisiologici e sulle nomenclature tecniche degli organi della respirazione, della fonazione e delle risonanze. Ma non v'è chi dia all'artista l'idea sintetica e costruttiva della tecnica vocale. (pag. 73)
Nella "respirazione artistica", il soffio è regolato dalla volontà ed è basato sopra il movimento diaframmatico-costale inferiore della respirazione automatica, allo stato di quiete, con la differenza che la "cintura" formata dai vari muscoli dell'addome deve mantenere la sua funzione per la durata del duplice atto respiratorio in virtù del freno inspiratorio nell'allontanamento volitivo e nel riavvicinamento cosciente della parete addominale, dalla colonna e verso la colonna vertebrale.
Nell'inspirazione il diaframma si contrae e, abbassandosi, comprime i visceri addominali, mentre la cavità toracica aumenta di ampiezza; nell'espirazione, il diaframma si rilascia e i visceri addominali, compressi dalla parete addominale, lo sospingono verso l'alto, mentre diminuisce la capacità toracica. (pag. 76)
Il "freno espiratorio costale" è di gran lunga più efficiente ed efficace del "freno inspiratorio diaframmatico", anch'esso fondamentale. Tra freno diaframmatico e freno della cintura muscolare toracico-addominale si stabilisce il "conflitto dei contrari". (...) Dunque, diaframma e cintura muscolare, in lotta fra loro e insieme associati dall'armonia delle facoltà superiori dell'anima, determinano il flusso aereo, parte del quale sarà tramutato in voce laringea e in risonanza di voce melodica.
E qui sorge un altro contrasto: quello delle opinioni, tra loro avverse, degli scienziati della voce. Ma il cantore deve prescindere da elucubrazioni analitiche e applicare l'opinione che nasce dall'esperienza viva del canto e dalle urgenze di problemi che talvolta si presentano improvvisi alla ribalta, nel pieno svolgimento dell'azione scenica e del canto. (pagg. 77-78)
[da: Giacomo Lauri-Volpi - "Misteri della voce umana", 1957]
Qui Lauri-Volpi, uno dei più grandi cantanti oltre che uno dei più grandi esperti di vocalità e tecnica vocale nell'intero Novecento, spiega cosa accade quando il cantante lirico sa respirare bene ed usa il fiato nel modo giusto, sia per quanto riguarda la presa del fiato, in fase inspiratoria, che per quanto riguarda il relativo controllo di questo fiato incamerato, in fase espiratoria. Se si respira "alto" la corretta respirazione non avverrà (e allora si alzeranno le spalle per errore), se si respira forzando i muscoli della parete addominale come quando si cerca di forzare l'ernia (tipica di certi "affondisti") anche in questo caso la corretta respirazione verrà compromessa. Respirare "basso" e "profondo" non impedisce che si alzi un poco anche il torace, specialmente per le donne (cosa del tutto diversa dalle spalle che si alzano nei principianti) - Respirare "basso" e "profondo" non significa nemmeno e non ha mai significato che non si debbano usare i muscoli addominali in modo impegnato per permettere che l'espirazione risulti lenta e costante fino all'esaurimento del fiato.
Quando parla del "conflitto dei contrari", Volpi sta in sostanza citando il Lamperti riferendosi a questo passo tratto dal "A Treatise on the Art of Singing" di Francesco Lamperti - London, 1877 :
“To sustain a given note the air should be expelled slowly; to attain this end, the respiratory (inspiratory) muscles, by continuing their action, strive to retain air in the lungs, and oppose their action to that of the expiratory muscles, which is called LOTTA VOCALE, or vocal struggle. On the retention of this equilibrium depends the just emission of the voice, and by which means of it alone can true expression be given to the sound produced.”
Vediamo ora più nel dettaglio cosa insegna Volpi per le due fasi inspiratoria ed espiratoria.
- Quantità giusta d'aria necessariamente maggiore per il canto lirico rispetto al parlato (I) :
L' "aria" respirabile ordinaria per respiro automatico, nello stato di quiete, è valutata dai fisiologi a "cinquecento cmc.". La capacità massima di inspirazione, nell'atto volitivo, è misurata da un'inspirazione di "tremilacinquecento cmc." d'aria. La differenza tra le due cifre stabilisce la quantità d'aria "complementare" e di "riserva" che si può inspirare. È noto che tra respiro e respiro, nello stato di riposo, v'è una "pausa" ristoratrice che risponde al ritmo respiratorio. L'aria di riserva, così importante nel canto, non viene espulsa nella respirazione automatica. Nella respirazione cantata la pausa di riposo è minima e l'espirazione è composta d'aria "complementare", "ordinaria" e di "riserva", a differenza della respirazione parlata che è di solito formata da poca aria "ordinaria" e di "riserva". Quest'ultima, nella respirazione cantata, deve sostenere, in certi casi, quasi tutto il peso respiratorio. Talché, ancor più che nel parlare, va utilizzato nel canto il massimo d'aria di riserva, a condizione, però, che alla fine della frase musicale e al termine dell'espirazione rimanga tesaurizzata nel mantice tanta riserva di quell'aria quanta sarebbe necessaria per trattenere il respiro ancora per un certo tempo. (pag. 78)
[da: Giacomo Lauri-Volpi - "Misteri della voce umana", 1957]
Respirazione per il canto lirico, descritta da Lauri-Volpi (I)
Qui Volpi sta chiaramente dicendo che la respirazione per il canto lirico differisce da quella ordinaria del parlato, soprattutto in una persona comune che non ha mai studiato canto. Certamente non si deve respirare prendendo una quantità d'aria talmente eccessiva da bloccare rigidamente il cantante, ma il concetto espresso è che non basta prendere poca aria nella maggioranza dei momenti, all'interno di una performance vocale in concerto o in un'opera: i 500 cmc citati non sono molto spesso sufficienti per cantare, a meno che non si debba cantare qualcosa di così corto come ad es. il "Sì" sulla nota mi centrale, all'inizio dell'aria di Mimì, "Sì. Mi chiamano Mimì", ma subito dopo bisogna già respirare di più. Come si deve prendere molto più fiato quando si devono sostenere note molto lunghe, acuti e lunghe sequenze di colorature-agilità vocali !!!
Ma andiamo avanti. Proseguiamo con l'interessante lettura.
- Quantità giusta d'aria necessariamente maggiore per il canto lirico rispetto al parlato (II) :
Confermato che la respirazione deve rimanere del tipo "diaframmatico-costale", l'immissione dell'aria, nel canto, avverrà superficialmente in base ad un'inspirazione d'aria "ordinaria". In altre parole, l'artista cosciente e sicuro di sé canterà respirando naturalmente, regolandosi secondo le esigenze vitali dell'ossigenarsi e quelle artistiche della frase cantata e da cantarsi dopo la pausa. (...) In séguito, esperienza e maturità insegneranno la respirazione spontanea e rapida, divenuta un riflesso automatico condizionato, acquisito nella ginnastica abituale. È lo stesso fenomeno che si riscontra nell'automatica digitazione del pianista. Riepilogando, si può stabilire che, trovato il punto d'appoggio, il suono melodico s'alimenta della corrente d'aria che risulta, abitualmente, da "millecinquecento a duemila cmc." d'aria durante la inspirazione cantata. (pag. 79) Nel canto tutto è un "gioco" d'aria nella pressione infraglottica verso le corde vocali in tensione e nella penetrazione verso le cavità cervicali. (pag. 89) Quanto all'apertura della cavità orale nel canto, va ricordato ch'essa è l'effetto, non la causa, di una giusta emissione, quando il diaframma proietta in direzione delle cavità superiori la colonna d'aria necessaria e sufficiente. È intuitivo che la sola aria ordinaria del respiro vitale, in stato di quiete e di silenzio, non basterebbe a un atto respiratorio di una certa energia. Per la quale ragione, tanto nel respirare parlando che nel respirare cantando, s'immette quella certa quantità d'aria di compenso o di supplemento a sostegno della parole e del suono. Flusso aereo, altezza e densità del suono non debbono nuocere alla libera articolazione e pronuncia della parola. Suono e parola restano paralleli, servendo ciascuno l'espressione dell'idea, in quanto il canto è "fenomeno psichico", intenzionale, oltre che essere "fenomeno fisico". (pag. 80)
[da: Giacomo Lauri-Volpi - "Misteri della voce umana", 1957]
Respirazione per il canto lirico, descritta da Lauri-Volpi (II)
In questa seconda parte del discorso, Volpi sta genericamente stabilendo che l'aria da respirare oscilli nel bravo grande cantante tra 1500 e 2000 cmc; è chiaro che quando si canta non si pensa a quanti cmc prendere, il punto di Volpi è che il quantitativo d'aria usato nel parlato, che di solito quando si parla è molto di meno, non basta per cantare liricamente, poiché quando si parla : - 1) le parole dette durano in media ognuna meno di un secondo, sono brevissime quindi, - 2) si tende a spezzare le parole, non a legare tutte le parole assieme come quando si esegue un "cantabile" belliniano o pucciniano, - 3) e l'estensione della voce usata è limitata a pochissime frequenze centrali, mentre nel cantato si deve cantare su almeno due ottave di estensione e anche di più, se si arriva a note davvero gravi e sopracute.
Egli menziona anche l'importanza di collegare il fiato con le cavità cervicali, cosa che rimarcherà ancora, più tardi negli anni, in questa intervista storica:
Per far funzionare appieno questa respirazione diaframmatica, è necessario, come dice Volpi, usare la "cintura" formata dai vari muscoli dell'addome per frenare lentamente e costantemente la risalita del diaframma che naturalmente salirebbe velocemente tutto in una volta, con conseguente risultato che sarebbe finita l'aria in un secondo solo. L'uso di questo freno addominale deriva chiaramente dalla scuola cotognana, come si comprende da questa testimonianza della Olivero che parlando di Ricci pianista per anni del grande Cotogni, baritono e famoso maestro di canto a Santa Cecilia in Roma, spiega che per sostenere in modo efficace il fiato-suono in fase espiratoria si devono impiegare i muscoli addominali.
Magda Olivero su Cotogni e l'importanza di saper respirare e di sostenere con i muscoli addominali nel canto lirico :
MAGDA OLIVERO : «Cotogni faceva scuola e Ricci era al pianoforte, quindi poi Ricci ha preso anche l'eredità proprio dal maestro, quindi ha assimilato tutte le lezioni di questo grande maestro e diceva Ragazzi, ricordatevi: "Saper respirare e saper sostenere, si sa cantare!". Sembra facile, eh!?! Però, quando si riesce, a farlo, si capisce appunto la bellezza anche di questa cosa, perché allora si canta senza il pensiero di dire: 'Uh, che fatica!' No, non è una fatica, perché i muscoli addominali sostengono il diaframma e il diaframma sostiene questa colonna di fiato che va e cammina, cammina, cammina, tranquillamente e non si fa fatica. Di Ricci io ho sempre un ricordo colmo di gratitudine, perché quello che ho imparato da Ricci non si dimentica.(...) Tanti dicono: 'Saper respirare e sostenere non è mica una cosa così difficile'. E invece è così difficile.»
[da : Marcello Giordani and Magda Olivero: A Conversation About Opera (Part Two) Milano, Italy - June 2010]